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Colombia-Farc, una pace difficile da raggiungere

di Salvo Ardizzone

I negoziati fra il Governo colombiano e le Farc, che dal 2012 proseguono a L’Avana, hanno raggiunto le ultime fasi, ma resta una questione avvelenata irrisolta: quale prezzo far pagare ai responsabili dei crimini commessi in cinquant’anni di conflitto?

Il Governo intende scegliere la via della giustizia transazionale, un sistema che tenga conto del contesto in cui sono stati perpetrati i delitti, e preveda punizioni alternative o tempi di detenzione più ridotti.

Detto così è un ragionamento equilibrato, ma nel contesto colombiano di assai difficile applicazione. La prospettiva di sanzioni indulgenti verso gli autori dell’infinita serie di atrocità ha già spaccato in due la società, con l’opposizione dell’ex presidente Uribe che soffia sul fuoco del risentimento delle vittime. Ma il nodo principale resta a chi allargare i benefici del sistema: pensato per le Farc, il Governo ha già dichiarato che sarà esteso alle Forze Armate; a complicare le cose, nello scorso febbraio, l’ex presidente Gaviria ha proposto che venissero inclusi anche gli altri gruppi che abbiano preso parte al conflitto contribuendo alle atrocità, in pratica paramilitari, giudici e funzionari corrotti, addirittura i narcos e così via.

Governo e Farc hanno fatto propria la proposta che mette al sicuro gli scheletri di un’infinità di armadi di entrambe le parti e non solo (vedi le pesanti implicazioni Usa da un canto, e i rapporti della guerriglia con cartelli e organizzazioni criminali di mezzo mondo dall’altro), ma le conseguenze che apre sono enormi: secondo la legislazione colombiana, l’amnistia può essere concessa solo per reati di natura politica o ad essi connessi, come ribellione, sedizione, sommossa, ma nessun tipo di perdono può essere concesso, come è giusto che sia, per crimini di guerra o contro l’umanità, e neppure per quelli connessi al narcotraffico.

Il fatto è che la droga è stata storicamente una risorsa per le Farc, che, come già detto, hanno finito per impelagarsi in modo inestricabile con cartelli e trafficanti d’ogni parte. Il presidente Santos lo sa bene, tanto che nel dicembre scorso s’è pronunciato a favore dell’assimilazione di quei crimini a reati politici salvo correggersi poco dopo, ma la strada era aperta, spalancando un varco alle aspettative di paramilitari, boss della droga, signorotti locali sporchi di sangue fino ai capelli, corrotti e trafficanti d’ogni tipo. Le Farc, dal canto loro, hanno già dichiarato che la guerriglia non sconterà un solo giorno di detenzione, e che non intendono negoziare la propria prigionia.

Ora, la flessibilità è necessaria in ogni negoziato, e ancor più in un contesto complesso come quello colombiano, ma non si può confondere con l’impunità, soprattutto quando gli attori hanno fatto a gara nel compiere le atrocità più efferate e, troppo spesso, hanno nascosto il peggiore lucro personale dietro la lotta politica o la controguerriglia.

Anche da un semplice punto di vista giuridico la cosa non regge: la Costituzione vigente, la Corte Penale Internazionale e i trattati che Bogotà ha sottoscritto e ratificato, vietano l’amnistia per i crimini di guerra e contro l’umanità e fanno dell’impunità un’ipotesi irrealizzabile.

Entro l’anno Santos vuole chiudere i negoziati a L’Avana, giungendo a una pace che manca alla Colombia da cinquant’anni, ma, per essere stabile, appoggiata da tutti i colombiani, non potrà eludere il problema che vittime e carnefici abbiano la giustizia che meritano, sia pur tenuto conto del contesto.

Pensare che questo possa essere sacrificato in nome di una pacificazione ottenuta ad ogni costo, oltre che essere un insulto alle vittime del conflitto è un errore, perché non sarebbe una pace duratura, tale da sanare le immense ferite del Paese, ma getterebbe le basi di una nuova crisi.

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