Cina, le banche ombra fanno tremare il Dragone
Cina – I sistemi bancari son troppo spesso poco chiari, ma quello cinese è proprio un mondo a parte; vizi privati (ma proprio tanti!) e pubbliche virtù strillate al vento. È un sistema che dobbiamo definire binario (per non dover dire schizofrenico o più semplicemente ipocrita): da una parte ci sono gli Istituti regolari, che raccolgono i depositi a tassi non superiori al 3% (fissati dalla Banca Centrale) ed offrono denaro a buon mercato al Governo ed alle aziende di stato (e a quella pletora di grandi strutture nate e pasciute all’ombra del potente di turno, vicino al cuore del potere).
Ma la Cina si vanta d’essere “un’economia capitalista di successo”, secondo la sua stessa definizione, e a chi non riesce ad accedere al credito ufficiale, vuoi perché gli stock di credito disponibile, fissati rigidamente dalla Banca Centrale, sono esauriti, o perché il potente dietro l’operazione lo è nella provincia remota dell’impero del Dragone, ma non a Pechino, resta l’alternativa delle banche ombra, quell’area “grigia (ed è un eufemismo) che viene definita “shadow banking”. Un’area d’assai dubbia legalità, che ha già raggiunto i 6mila mld di $ di valore, circa il 70% del Pil del pianeta Cina. Una bolla che minaccia alle fondamenta il “miracolo” Cina e, per le sue dimensioni e implicazioni, l’intera economia mondiale, come abbiamo già spiegato in un nostro precedente articolo. Ma come funziona?
Il meccanismo ha molte varianti, ma parte dal fatto che il cinese medio è un grande risparmiatore e adora investire e guadagnare sul capitale che impiega, magari assumendosi rischi notevoli. Chi vuole denaro per un’impresa (ovviamente coperta dal funzionario di partito del luogo o comunque dalla solita rete di contiguità, alleanza e così via del potere locale) si rivolge a una fiduciaria, che spesso fonda lui stesso, e raccoglie i soldi fra la gente che i soldi li ha, promettendo interessi del 9/10% (ufficialmente, in moltissimi casi si parla d’assai di più, fino al 5/6% al mese).
Lo fa attraverso banche ufficiali che si limitano a distribuire i cosiddetti strumenti finanziari presso la clientela (e senza indagare più di tanto su cosa ci sia realmente dietro quel contratto). I soldi raccolti tornano alla fiduciaria, che li impiega prestandoli a tassi ufficialmente del 12/13%; ma, anche in questo caso, nella norma è di più, assai di più, attraverso obbligazioni collaterali al contratto base.
In realtà, s’avvicina assai al meccanismo della “piramide”, con il quale la nuova raccolta di risparmio serve a coprire gli interessi e gli eventuali rimborsi, detratta una fetta assai cospicua per chi ha gestito l’operazione. Certo, serve anche a finanziare attività reali, ma non potrebbero mai coprire gli interessi promessi e neppure, alla bisogna, la restituzione dei capitali.
Un caso fresco, di gennaio, è emblematico: centinaia di investitori avevano scommesso 3 mld di yuan dei loro capitali su “Credit Equals Gold n. 1”, un nome sonante che era però collegato ad un’industria mineraria dello Shanxi decotta e stracotta perché in Cina s’accumulano milioni e milioni di tonnellate di carbone invenduto, in un sistema che va ormai a petrolio e gas. Quel credito era carta straccia buttata in un pozzo nero; il fatto è ch’era stato venduto attraverso Icbc, la più grande banca della Cina.
A inizio gennaio, China Credit Trust (altro nome altisonante), che aveva creato il Fondo, ha candidamente comunicato che l’operazione era andata male: niente interessi e il capitale versato s’era volatilizzato. Ma stavolta l’imminente default è finito all’attenzione delle società di rating, sempre più innervosite dalla disinvoltura delle banche cinesi, aprendo un caso capace d’aprire una falla incontenibile nei 1.670 mld di $ di simili prodotti finanziari cinesi, e di travolgere l’intero sistema dello shadow banking (con gli almeno 6mila mld di $ gestiti).
A Davos il Presidente della Icbc, dall’alto della sua fresca arroganza per il ruolo assunto dalla Cina, ha dichiarato che la sua banca non intendeva rispondere degli investimenti fatti da incauti, ma, sul filo di lana, s’è trovato un misterioso quanto anonimo investitore, che ha accettato d’assumersi le obbligazioni e ristrutturare il debito: capitale salvo (e parliamo di almeno 490 ml $), pazienza per gli interessi. È ovvio che dietro il “cavaliere bianco” ci sia una mano politica che voglia salvare il sistema. Ma fino a quando? I giornali cinesi son pieni di processi ad alti funzionari e politici per “condotta impropria”, che tradotto significa corruzione, ma il formaggio è divenuto troppo grande e troppo invitante per chi se lo trova sotto il naso, e i topi si sono moltiplicati all’infinito.
Purtroppo, come abbiamo già detto in altro articolo, un “big bang” dell’economia cinese, inevitabile se scoppiasse il bubbone del shadow banking, travolgerebbe l’economia mondiale.
Riuscirà la nuova dirigenza cinese a porre un freno all’avidità di chi all’improvviso si sente padrone del mondo? Francamente ne dubitiamo assai, ma è l’augurio che dobbiamo farci tutti.
di Salvo Ardizzone