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Caso Ilva: cosa c’è dietro?

Sulla vicenda Ilva si sono già scritti fiumi e fiumi di inchiostro; i media hanno puntato in questo periodo sul classico connubio, degno del miglior Shakespeare: “Ambiente o non ambiente?” oppure “Ambiente o lavoro?”.

Ma in realtà, sul tavolo, sembra esserci ben altro: andiamo ad analizzare analiticamente e con molta attenzione la faccenda per come si è sviluppata.

Punto primo: l’Ilva sta in quella magnifica insenatura pugliese su sui si sviluppa Taranto da decenni e da decenni costruttori, imprenditori e politici di varia natura permettono lo sviluppo della città vicino la fabbrica nata comunque, di per sé, non lontana dal centro; domanda: perché giusto oggi ci si accorge che a Taranto si muore di tumore?

Il polo dell’acciaio più grande d’Europa, è figlio di una politica di industrializzazione a “macchia di leopardo” fatta sviluppare a tavolino negli anni ’50 nel sud Italia: si credeva, a torto, che il sud potesse eguagliare il nord solo portando lì le industrie e le fabbriche, sfruttando magari anche il costo lievemente minore della manodopera.

Scelta che ha creato poli industriali di importante caratura, da Bagnoli alla Basilicata, da Crotone a Porto Empedocle, da Priolo a Gela, ma senza una corrispondente pianificazione strutturale ed infrastrutturale, la fabbrica si è trasformata in questi luoghi in una cattedrale nel deserto, che difficilmente nel lungo periodo poteva reggere.

Ma a Taranto, per una serie di motivazioni, ha retto ed anzi si è andata sempre più sviluppando, facendo uscire da quell’immenso polo industriale, cuore dell’economia tarantina, il 40% dell’acciaio che viene usato in tutta Italia, una vera e propria risorsa nazionale in pratica.

Arriviamo, da queste considerazioni, all’altra domanda: non sorprende soltanto la tempistica, ossia del perché solo oggi ci si accorge che dietro allo sviluppo industriale, c’è la morte lenta e silenziosa per tumore di tante persone, ma viene da chiedersi se quella contro l’Ilva sia un’inchiesta finalizzata ad accertare la congruità tra inquinamento e casi di decesso oppure un vero e proprio accanimento.

La sensazione è infatti questa: come si diceva prima, da Priolo a Gela ed in tanti altri poli, ci sono diversi casi sospetti di mortalità elevata per tumore in prossimità di grandi insediamenti industriali, come mai da un anno e più si batte esclusivamente su Taranto e sull’Ilva?

Prima l’inchiesta, poi il piano che prevedeva una graduale messa in sicurezza dell’impianto, poi ancora il sequestro parziale dell’area industriale e di alcuni prodotti, infine, come se non bastasse, un’altra inchiesta ha portato al sequestro di 8 miliardi di Euro, prosciugando di fatto le casse della famiglia Riva, proprietaria dell’Ilva.

Sia ben inteso che non si vuole in questa sede difendere la famiglia Riva, sulla quale pesano non poche responsabilità gestionali sul fatto soprattutto che, in tempi non sospetti, non ha provveduto ad adeguare l’impianto con opportuni interventi volti a ridurre esalazioni e quant’altro di nocivo, però un continuo martellare da parte delle toghe sull’Ilva di Taranto, che, ricordiamolo, costituisce di fatto un vero e proprio luogo strategico per l’intera economia nazionale, è quantomeno sospetto.

Si ha la sensazione che, in un modo o nell’altro, il destino dell’impianto sia già stato segnato e dovrà il prima possibile essere chiuso e smantellato, procedendo prima a creare emotività tra la gente in merito le opportune, per carità, problematiche di tipo ambientale, per il quale parte dell’impianto è sotto sequestro, adesso invece si mira dritto al patrimonio dei Riva, con conseguente rischio del blocco delle attività dei forni.

Sul perché dell’accanimento ed a dimostrazione di tale tesi, ci sono due teorie: la prima riguarda un progetto, che sarebbe spuntato fuori da alcune carte del Pentagono del 2004, in cui si prevede di posizionare a Taranto una nuova base Nato, vicina se non attigua all’attuale stabilimento industriale, la cui presenza sarebbe decisamente inopportuna a nociva in caso di realizzazione di tale base militare.

La notizia è saltata fuori alcuni mesi fa e, fino ad adesso, non sono arrivate secche smentite da nessuna istituzione, si è preferito far tacere tali indiscrezioni, puntando ad informare i cittadini esclusivamente su tutto ciò che attiene alle problematiche ambientali.

Ma ammesso e non concesso che questo progetto sia falso o comunque di non immediata esecuzione, c’è un’altra teoria, questa volta marcatamente economica, sul perché ci si vuole disfare dell’Ilva: come detto prima, da Taranto esce il 40% della produzione nazionale dell’acciaio, da cui derivano poi a sua volta, in un effetto domino, tanti altri prodotti industriali, in special modo del ramo meccanico.

Dare quindi una botta mortale all’Ilva di Taranto, non vuol dire solamente far perdere il posto di lavoro a quarantamila padri di famiglia che attualmente ci lavorano, il che di per sè costituirebbe una tragedia sociale in un momento di crisi come quello attuale, ma anche dare il colpo di grazia all’industria italiana.

L’Italia negli anni, ha visto sempre di più scemare la propria industria pesante: dalle nostre parti, non si producono più treni, la Fiat via via delocalizza sempre di più, l’Italcementi ha chiuso altri due stabilimenti, le fabbriche in generale, vanto (l’unico) del dopoguerra italiano, vanno via dal bel Paese e far chiudere anche lo stabilimento dal quale fuoriesce il 40% dell’acciaio della nostra nazione, vuol dire levare ossigeno prezioso alla nostra economia, in poche parole è un altro tassello di sovranità che viene tolto.

Infatti, le nostre industrie sarebbero costrette a comprare acciaio estero, con costi gravosi e soprattutto con l’odiosa situazione in cui si dovrà dipendere, anche in questo ramo, dall’estero; oppure, nel caso in cui si vogliano salvare i posti di lavoro, essendo i Riva oramai bloccati da un punto di vista finanziario, dovranno cedere alle avance di qualche multinazionale straniera, svendendo di fatto un prezioso gioiello industriale.

In conclusione allora, viene difficile pensare che a Taranto ci sia in ballo la disputa tra ambiente e lavoro, bensì si ha la sensazione che in terra pugliese si stia cercando, grazie alla complicità o, nella migliore delle ipotesi, all’ingenua azione in buona fede della Magistratura, la quale è riuscita nell’impresa non facile di mettere in ginocchio uno dei pochi settori non in crisi della nostra industria.

di Mauro Indelicato

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