Cala il sipario sul South Stream
Era già scritto, doveva accadere già da tempo ed è accaduto: il South Stream non si farà più, lo ha annunciato Putin durante la sua visita in Turchia. Quel gasdotto, partendo da Anap, sulla costa del Caucaso nel Mar Nero, avrebbe portato 63 Mld di metri cubi di metano all’anno fino al cuore dell’Europa aggirando l’Ucraina e i suoi problemi. Doveva essere il gemello del North Stream, che sotto le acque del Baltico porta lo stesso quantitativo fino in Germania e, per comprenderne la portata, basta ricordare che il mega accordo di maggio con la Cina, di miliardi di gas all’anno ne prevedeva 38.
I motivi della cancellazione sono arcinoti e ne abbiamo già parlato diverse volte: la crisi Ucraina, manovrata da Washington, ha condotto la Ue a spezzare legami antichi e reciproche convenienze, in nome d’una sudditanza che s’inchina agli interessi Usa ripudiando quelli dell’Europa. Con le sanzioni, per Mosca non aveva senso continuare: troppe le difficoltà regolamentari e normative volutamente messe in piedi da Bruxelles, e troppe pure le difficoltà tecniche e finanziarie sopraggiunte.
L’opera, un tubo colossale di 3.600 Km che avrebbe attraversato il Mar Nero e i Balcani, da un costo preventivato di 16 Mld di € era giunta a 23,5 e le grandi banche, nel quadro che s’era determinato, erano state costrette a tirarsi indietro; ma è stato l’aspetto tecnico a dare il colpo di grazia all’investimento: con l’italiana Saipem messa fuori gioco dalle sanzioni, l’opera era morta in partenza; era lei che stava per iniziare la parte più difficile, la posa dei tubi sotto il mare.
A questo punto, coi finanziamenti tagliati, col partner che doveva fornire la tecnologia costretto a sfilarsi e con una situazione finanziaria sempre più pesante per la guerra petrolifera scatenata dall’Arabia Saudita (che ha fatto precipitare il prezzo del greggio di quasi il 40%), a Putin non è rimasto altro da fare che prendere atto del masochismo dei Paesi europei. Il Corridoio Sud è bell’e morto e, malgrado le dichiarazioni rilasciate a caldo, è irrealistico pensarne un altro che passi per la Turchia: costi e problemi sarebbero immutati, forse maggiori. E, in fondo, a Mosca interessa già meno.
Dinanzi all’offensiva dello Zio Sam, sta rapidamente riposizionando la sua offerta, orientandola ad Est con una serie di mega accordi e mega contratti. Certo, dovrà soffrire per qualche anno fino a quando non andranno a regime, ma dopo chi soffrirà saranno solo gli europei che, spezzando una partnership preziosa, ne subiranno i costi, perché intendiamoci: nella Ue il gas russo continuerà ad arrivare (e non potrebbe essere diverso per entrambi, visti gli interessi e i quantitativi), solo che le condizioni cambieranno e non ci saranno i fondamentali accordi aggiuntivi, con gli investimenti congiunti in Russia (sono già saltati quelli enormemente interessanti per lo sfruttamento del greggio dell’Artico). Non solo: l’Ucraina, ora, sarà una palla al piede per la Ue, costretta dagli accordi sottoscritti a pagarle il gas a prezzo pieno.
In questo capolavoro alla rovescia, è l’Italia quella messa peggio: Saipem ed Eni perdono colossali commesse per infrastrutture e lucrose joint-venture per la ricerca e lo sfruttamento di nuovi giacimenti, ed è già tanto che, grazie a clausole e codicilli che avevano infilati nei contratti, riescono a venirne fuori senza penali; il peggio tocca al Sistema Italia che, nel mezzo della sua crisi peggiore, invece d’avere un mercato enorme d’opportunità d’investimenti e materie prime, sceglie di castrarsi tirandosene fuori. Non solo: invece d’assicurarsi certezze d’approvvigionamenti energetici a costi ragionevoli, pianta in asso il suo primo fornitore quando già in Libia c’è il caos (e fra poco sarà anche peggio) e l’Algeria è scossa da fremiti.
E tutto questo disastro ha l’unica motivazione vera nel continuare a genuflettersi dinanzi agli interessi di Zio Sam.