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Arabia Saudita, 14 giovani attivisti condannati a morte

Un tribunale saudita ha condannato a morte più di una dozzina di giovani attivisti sciiti della regione di Qatif, che è stata teatro di manifestazioni di protesta contro il regime dominante Al-Saud negli ultimi anni. A nulla sono valse le richieste di revisione urgente della legge saudita contro il “terrorismo” e l’allarme lanciato da gruppi internazionali per i diritti umani sull’aumento delle misure repressive contro gli attivisti anti-regime in Arabia Saudita.

Il canale televisivo al-Manar del Libano ha riferito che 14 attivisti sono stati condannati a morte giovedì dalla Corte Suprema di Riyadh per aver partecipato alle proteste anti-regime nella regione di Qatif.

Le fasi del processo che precedono i verdetti si sono tenute presso il tribunale penale che si occupa di casi legati al terrorismo, tribunale che, secondo legali esperti, rappresenta lo strumento del ministero degli Interni per sopprimere gli attivisti dell’opposizione. I giovani sono stati costretti a false confessioni attraverso la tortura fisica e psicologica, come hanno osservato alcuni difensori durante le sedute.

I verdetti sono stati emessi nell’ultima ondata di disordini nella città sciita di Awamiyah a Qatif, che è stata ripetutamente attaccata dalle forze di regime nelle ultime settimane. Qatif era la patria dello Sceicco Nimr Baqir al-Nimr, un critico schietto delle politiche saudite, la cui esecuzione nel 2016 da parte del regime di Riyadh ha scatenato forti proteste in patria e all’estero come pure diffuse condanne internazionali.

Dal febbraio del 2011 la Provincia Orientale popolata da sciiti è stata teatro di manifestazioni pacifiche, che chiedevano libertà di espressione, liberazione di prigionieri politici e la fine della discriminazione economica e religiosa attuata dal regie saudita nella regione ricca di petrolio.

Già nella relazione di febbraio di Human Rights Watch (Hrw), il gruppo internazionale per i diritti umani aveva documentato l’allarmante aumento delle misure repressive del regime di Riyadh contro gli attivisti in Arabia Saudita. “L’Arabia Saudita sta cercando di ridurre al silenzio e bloccare chiunque non abbia la linea ufficiale oppure osa esprimere una visione indipendente sulla politica, sulla religione o sui diritti umani”, ha dichiarato Sarah Leah Whitson, direttore di Human Rights Watch per il Medio Oriente, facendo riferimento all’utilizzo della cosiddetta “legge anti-terrorismo” utilizzata per annullare voci critiche nel regno. Riyadh ha adottato una versione aggiornata della legge nel 2014, consentendo pene più severe per coloro che sono stati giudicati colpevoli di terrorismo.

In maggio, il relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti dell’uomo e sul terrorismo, Ben Emmerson, ha invitato l’Arabia Saudita a smettere di utilizzare la legge contro le persone che esercitano pacificamente i loro diritti alla libertà di espressione, associazione e assemblea. Secondo Emmerson la controversa legge contiene una “definizione inaccettabilmente ampia” del crimine e non rispetta le norme internazionali sui diritti, necessita quindi di un meccanismo di revisione indipendente per esaminare i casi di persone imprigionate perché esercitavano tali diritti e per “commutare la pena o perdonare tutti questi detenuti con effetto immediato”.

Vale la pena sottolineare che l’Occidente – e in particolare gli Stati Uniti – hanno usato la forza per rovesciare nel 2011 il governo libico per motivi “umanitari” e che il coinvolgimento occidentale in Siria è stato invocato per motivi “umanitari”. Allora perchè l’Occidente non si è mosso contro l’Arabia Saudita per le sue esecuzioni di massa di gente pacifica, per la guerra al vicino Yemen e per il sostegno ai terroristi?

“Giorno verrà, presàgo il cor mel dice. Verrà giorno che il sacro iliaco muro. E Priamo e tutta la sua gente cada”, così parlava Ettore ad Andromaca.

di Cristina Amoroso

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