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Andreotti il filo-arabo, inviso oltreoceano

Andreotti – Lo scudo crociato della Democrazia Cristiana, nell’immaginario collettivo, rappresenta anche l’egida degli interessi americani nel nostro Paese. Sin dai tempi della Costituente e forse già da prima, dagli anni concitati della Seconda Guerra mondiale. Tanti i riferimenti che suffragano questa tesi, a cominciare dal fatto che De Gasperi fu il maggior promotore dell’ingresso italiano nella Nato e che, in anni di “guerra fredda”, la Dc mantenne fedelmente il ruolo di avamposto occidentale dell’anticomunismo.

Tuttavia, lo stretto legame con Washington non impedì ai leader democristiani di effettuare delle scelte contrastanti con lo stereotipo attribuitogli, dei lustrascarpe dello Zio Sam. La linea che da una certa fase storica in poi, anche in ragione dei mutamenti geo-politici in atto, prevalse negli ambienti di Piazza del Gesù fu definita doppiogiochista da alcuni, pragmatica e realista da altri. Essa si basava sull’idea che, laddove gli interessi statunitensi non corrispondessero con quelli italiani, fosse opportuno muoversi autonomamente.

Una politica che spinse Enrico Mattei, fondatore e presidente dell’Eni, a ricercare rapporti diretti con i produttori di petrolio del Medio Oriente, così sfidando le “sette sorelle”, ossia le grandi compagnie petrolifere, e quindi anche gli interessi di Washington. Mattei morì in un incidente aereo ancora gravido di misteri, ma questa attitudine al dialogo diretto con il mondo arabo rimase una sua preziosa eredità politica, capace di far scaturire eclatanti episodi.

La notte di Sigonella

Il più famoso si consumò nei pressi della base americana di Sigonella, nell’ottobre 1985. Erano i tempi del pentapartito. Il presidente del Consiglio era infatti il socialista Craxi, mentre al Ministero degli Esteri spiccava la figura democristiana di Giulio Andreotti. I due, seppur molto differenti e tutt’altro che amici, condividevano una certa sintonia in politica estera. Così, si ritrovarono solidi alleati durante la drammatica vicenda della nave Achille Lauro.

Tutto iniziò il 7 ottobre, quando un commando del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina prese in ostaggio passeggeri ed equipaggio dell’imbarcazione da crociera italiana. Gli uomini armati, sotto minaccia di far esplodere la nave, chiedevano il rilascio di una cinquantina di loro compagni detenuti nelle carceri israeliane. Andreotti e Craxi si attivarono sin da subito, sfruttando i loro canali diretti, per far pressione su Arafat e l’Egitto (nelle cui acque si trovava la nave) affinché si arrivasse a una soluzione pacifica.

Dopo una giornata di convulsi contatti diplomatici che coinvolsero Roma, Washington, Il Cairo, Tunisi, Damasco, Tel Aviv e la Palestina, la situazione a bordo della nave degenerò. I sequestratori uccisero e gettarono in mare un passeggero americano d’origine ebraica. Il 9 ottobre la nave arrivò al porto di Alessandria, dove i sequestratori furono convinti ad attraccare dal loro leader Abu Abbas, una volta ottenuta la garanzia di un salvacondotto. Il gruppo, insieme a militari egiziani, venne quindi fatto salire su un aereo di Stato in direzione Tunisi, dove la questione si sarebbe potuta risolvere diplomaticamente, grazie al legame tra Craxi e il presidente tunisino.

Lo strappo Usa

In Tunisia però i sequestratori non arrivarono. Il volo fu intercettato da caccia Usa, che costrinsero l’aereo ad atterrare nella base di Sigonella, in Sicilia. L’Italia di Craxi e Andreotti non digerì lo strappo statunitense, e dunque impedì ai militari della Us Army di arrestare i componenti dell’aereo. In quella celebre notte tra il 10 e l’11 ottobre 1985, si sfiorò lo scontro a fuoco tra militari Usa e carabinieri italiani, giunti in forze e ben armati nei pressi della base di Sigonella. A seguito del durissimo braccio di ferro, accompagnato da parole pesanti, tra Craxi e il presidente americano Reagan, l’Italia riuscì a far prevalere le proprie ragioni. L’aereo fu scortato dai nostri caccia sino a Roma, da dove il giorno dopo, il 12 ottobre, Abu Abbas lasciò l’Italia per Belgrado con un aereo jugoslavo. I sequestratori vennero invece processati nel nostro Paese.

Asse Andreotti-Craxi

Il fatto fu la punta massima di scontro tra Italia e Stati Uniti sin dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Ne conseguì una crisi di governo, il ministro della Difesa Spadolini, leader del filo-americano Partito Repubblicano Italiano, ruppe con l’asse Andreotti-Craxi. Gli Stati Uniti ufficialmente fecero rientrare la polemica, ma negli ambienti che contano c’è chi giura che a Washington la rabbia per quel sussulto di sovranità nazionale italiana non sia mai stata smaltita.

Anni più tardi, le disavventure giudiziarie di Craxi e Andreotti. Per molti, una vendetta statunitense consumatasi in un piatto freddo condito dal condizionamento mediatico dell’opinione pubblica. Ipotesi senza riscontro, è vero. Ipotesi che lo stesso Andreotti, in un’intervista rilasciata a Quaderni Radicali nel 2005, allontana definendo il governo americano «estraneo a queste storie». Con l’acume che gli era proprio, il Divo Giulio tuttavia puntualizzava: «Che però qualcuno dei servizi americani possa averci messo il becco, non posso escluderlo».

Nell’intervista, Andreotti raccontava una serie di indizi eloquenti, e concludeva: «Si tratta di piccoli sintomi di qualche piccola ombra. Tutto questo può essere collegato, forse, all’atteggiamento un po’ grezzo di coloro che affermano: o sei con Israele o coi palestinesi. Oppure, anche con il fatto dell’Achille Lauro, benché non abbia elementi in tal senso. Qualche piccola venatura dev’esserci comunque stata, pur non avendo riguardato settori ufficiali dell’Amministrazione» (1).

Andreotti amico dell’Iran, di Gheddafi, Assad padre, Arafat

In quest’ultima affermazione c’è tutto il fine modo di parlare andreottiano, che elargisce verità in pillole di fine dialettica. Egli sapeva più di chiunque altro che il lavoro sporco non lo svolgono mai i «settori ufficiali dell’Amministrazione», pertanto quella risposta cela tra le righe più di quanto appare in superficie.

Le opinioni possono divergere, ma i fatti restano. E i fatti testimoniano di un Andreotti amico dell’Iran, di Gheddafi, Assad padre, Arafat. Nel 1982, quando il leader dell’Olp era diffusamente considerato un truce terrorista, Andreotti lo invitò a parlare alla Camera dei deputati, a Roma, sdoganandolo così agli occhi della comunità internazionale. Negli anni ’90, durante una visita a Teheran, benché non avesse più cariche istituzionali, l’allora presidente iraniano Rafsanjani accolse Andreotti con gli onori di un capo di Stato. E poi c’è “Sigonella 1985”, un manifesto di sovranità nazionale. Un curriculum, quello di Andreotti, che la metà sarebbe bastata per provocare avversione da parte di Usa ed Israele. E le avversioni, in politica, possono spesso concretizzarsi in vendetta.

Nel 2006, durante un dibattito sulla guerra israelo-palestinese in Senato, Andreotti affermò: «Credo che ognuno di noi, se fosse nato in un campo di concentramento e non avesse da 50 anni nessuna prospettiva da dare ai figli, sarebbe un terrorista».

di Federico Cenci

(1)

http://www.agenziaradicale.com/index.php/rubriche/rimandi/1558-andreotti-nel-processo-del-secolo-il-profilo-di-un-disegno-politico

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