Africa alla ricerca del suo futuro: l’Egitto e la Libia
Africa – Gli avvenimenti degli ultimi anni nel continente africano hanno evidenziato la relazione secolare con le nazioni imperialiste attraverso il processo di sfruttamento economico delle risorse umane e naturali. Pur con lievi variazioni la realtà nei 55 Paesi che compongono l’Unione Africana (Au) – tutti nominalmente indipendenti con l’eccezione del Sahara occidentale ancora sotto l’occupazione marocchina – si concretizza in una situazione interna instabile e condizionata da continue disgregazioni. E’ possibile per l’Africa uno sviluppo sostenibile? No, secondo la “teoria della dipendenza”.
La “teoria della dipendenza”
Samir Amin, uno studioso prolifico e rinomato in Egitto, è scomparso il 12 agosto 2018 in un ospedale di Parigi all’età di 86 anni. Amin, il segretario esecutivo co-fondatore del Consiglio per lo sviluppo della ricerca sociale in Africa nel 1973, era uno dei più importanti ricercatori marxisti nel campo di ciò che divenne noto negli anni ’70 come “teoria della dipendenza”. Poche prospettive sono state più influenti nel terzo mondo negli ultimi decenni quanto la “teoria della dipendenza”. Originaria dell’America Latina, è stata resa popolare da Andre Gunder Frank, ripresa in Africa da Samir Amin, secondo la quale un Paese decolonizzato non potrebbe ottenere l’indipendenza sostenibile senza “affrancarsi” dall’imperialismo mondiale. In altre parole è possibile uno sviluppo minimo o nullo per i Paesi del terzo mondo entro i limiti del sistema capitalista mondiale. Teoria che possiamo verificare in due Paesi del Nord Africa.
Instabilità in Nord Africa: i casi dell’Egitto e della Libia
Il terzo Paese più popolato dell’Au è l’Egitto, che ha subito profondi sconvolgimenti politici dal 2011. Le dimissioni dell’ex presidente Hosni Mubarak dopo le proteste di massa comunemente definite come la “primavera araba” hanno creato nel 2013 le condizioni per l’ascesa dell’attuale presidente, generale Abdel-Fattah al-Sisi. Un’amministrazione eletta dei Fratelli Musulmani nel 2012 sotto la bandiera del Partito della Libertà e della Giustizia (Fjp) è durata un anno, quando i militari hanno riconquistato il potere sostenendo di avere un mandato popolare per “ristabilire l’ordine” e riportare la nazione al “secolarismo”. Migliaia dei sostenitori del Fjp sono stati uccisi o arrestati all’indomani del colpo di stato.
Il presidente deposto Mohamed Morsi rimane imprigionato e nel mese di dicembre è apparso nella stessa aula con Mubarak, in un processo che sta cercando di porre la colpevolezza sul leader del Fjp per i disordini che hanno colpito l’Egitto nel 2011-2012. Eppure non furono i Fratelli Musulmani, che iniziarono le manifestazioni di massa contro Mubarak nel febbraio del 2011. Fu un ampio malcontento che emanava dalla posizione subordinata dell’economia all’Imperialismo facilitato dal finanziamento dell’apparato militare e di sicurezza egiziano in aggiunta ad interessi strategici di Washington legati alla continua esistenza dello Stato di Israele e al suo ruolo in tutto il Nord Africa e l’Asia occidentale.
Un attentato dinamitardo su un autobus turistico al Cairo vicino alle piramidi storiche ha ucciso tre Vietnamiti. Il giorno successivo è stato annunciato dalle autorità egiziane che 40 “militanti” erano stati eliminati dall’esercito in un’operazione anti-terrorismo. Questi episodi di violenza mirata alla rappresaglia volta a indebolire e rafforzare l’economia e il sistema politico egiziano possono sembrare problemi di applicazione della legge. Tuttavia, le origini del pantano si trovano nell’eredità del colonialismo britannico e francese che va dal XVIII al XX secolo. Altri fattori nella crisi egiziana derivano dall’invasione di Tel Aviv sostenuta da Washington che controlla gli avamposti pro-occidentali sia attraverso mezzi economici che militari.
L’imperativo della tesi di Amin può essere meglio illustrato anche nella vicina Libia, dove una guerra del Pentagono e della Nato fu lanciata all’inizio del 2011 dopo essere stata falsamente etichettata come un movimento a favore della democrazia. Utilizzando i ribelli controrivoluzionari sul terreno, la campagna aerea di sette mesi da marzo a ottobre ha rovesciato il sistema della Jamahiriya sotto il colonnello Muammar Gheddafi, creando una situazione vacua, che rimane ancora oggi. Nonostante diversi tentativi di rifare la Libia post-Gheddafi a immagine dell’imperialismo, la violenza delle fazioni e l’ininterrotta interferenza militare degli Stati della Nato e dei suoi alleati hanno lasciato il Paese in perenne disordine. La Libia si è guadagnata una reputazione negli ultimi tre anni come un importante centro per la tratta di esseri umani in cui gli africani vengono abitualmente abusati e venduti come lavoratori a basso costo e schiavi del sesso.
Migliaia vengono trasportati illegalmente su base giornaliera attraverso il Mar Mediterraneo verso l’Europa meridionale. Molti muoiono durante il viaggio, mentre il dibattito sull’immigrazione ha creato le basi politiche per l’ascesa dei partiti di destra, che hanno ottenuto un sostegno significativo in tutto il continente europeo.
Le eredità del colonialismo devono essere superate per favorire lo sviluppo regionale
In Nord Africa, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e altri governi dell’Unione Europea stanno cercando di migliorare la loro presenza militare ed economica in tutta la regione. La dipendenza dall’Occidente per la determinazione dei prezzi delle materie prime e delle preferenze legate al commercio con gli Stati africani rappresenta un grave ostacolo all’effettiva sovranità e unificazione del continente. Fino a quando queste sfide non saranno affrontate su base continentale non ci può essere alcuna sicurezza reale contro le minacce che emergono da elementi sia interni che esterni.
di Cristina Amoroso