A chi conviene la crisi greca?
La lettura dell’interessante articolo di Alexis Tsipras, uno dei leaders di Syrizas -la sinistra greca- su “Le Monde Diplomatique”, (vedine, su “Spazio Lib-Lab”, la traduzione di J.F.Padova: “La nostra soluzione per l’Europa”) suggerisce alcune considerazioni, anche a chiarimento di fatti che forse non sono tutti sufficientemente noti in Italia.
L’atteggiamento europeo.
Come si sostiene nell’articolo, l’Europa tedescocentrica non è stata in grado di individuare quale potesse essere un suo interesse comune in rapporto alla crisi greca, avendo fatto invece prevalere considerazioni dettate dai governanti di singoli Paesi, o gruppi di Paesi.
Interesse comune che, se non poteva certo esser quello di avallare o passar sopra alle falsificazioni dei bilanci e della rappresentazione della situazione finanziaria del Paese, e neanche quello di consentire che l’insolvenza di un paese venisse a coinvolgere l’intero sistema-euro, non poteva però essere quello di soffocare l’economia greca sino alla paralisi ed al paradosso di aver imposto misure che, nate in nome del risanamento dei conti pubblici, possono forse allontanare il rischio di default immediato, ma a spese del futuro, allontanando, come si vedrà, ogni prospettiva di un risanamento strutturale e di un riequilibrio stabile.
In effetti, per un verso, gli interventi sono stati tardivi e limitati, con la conseguenza di averne dovuto di volta in volta ridefinire l’importo, per arrivare ad una dimensione d’insieme molto maggiore, e con un’efficacia molto minore, di quanto si sarebbe ottenuto ove se ne fossero stabiliti con determinazione e convinzione, sin dal primo allarme, criteri e dimensioni adeguati.
Di volta in volta, sono state prese decisioni esitanti sotto la spinta dell’immediata emergenza, procrastinandone poi l’applicazione, e mirando più a rassicurare nel breve i mercati che a render possibile, con la riduzione di deficit commerciale e squilibri finanziari, una strutturale solvibilità della Grecia. Tra l’altro, le stesse esitazioni e diversità di vedute hanno vanificato buona parte degli effetti-annuncio degli interventi, attutendone non poco l’efficacia rispetto agli stessi obbiettivi di raffreddamento che venivano proclamati.
Per un altro verso, il sostegno europeo è stato condizionato a misure restrittive che sono subito apparse come largamente dettate dalla necessità di non alienarsi le opinioni pubbliche dell’Europa “forte”, ed in particolare di quella tedesca, invece che da valutazioni realistiche della situazione, dei suoi rischi, di un comune interesse europeo.
Muovendo da una inadeguata comprensione dell’anomalia greca, ed attribuendo la gravità della crisi unicamente agli aspetti degenerativi di un sistema economico e non al sistema in sé, si sono imposti interventi che impediscono di operare sulle cause di fondo (lo squilibrio dell’economia e del sistema produttivo), ma si limitano a cercare di contenerne, senza peraltro che ciò sia certo, alcuni degli effetti (il deficit ed il debito), aggravandone invece altri (recessione e disoccupazione) ed appesantendo gli squilibri della struttura economica e sociale della Grecia. In sostanza, allontanando le prospettive di stabilizzazione del sistema.
Non si è data così la sensazione di voler cercare, nella visione di un’Europa che cerca un comune livellamento verso l’alto, l’allineamento della Grecia agli standards economici e sociali europei; e la presunzione che la terapia imposta fosse di per sé adeguata a risanare l’economia e la solvibilità greca si manifesta come una pia illusione e come l’indice di un sostanziale disinteresse al riguardo.
Nell’atteggiamento dell’Europa “forte” di fronte alla crisi greca non sono quindi riscontrabili concezioni aperte e larghe di un comune interesse, ma atteggiamenti simili a quelli che si hanno di fronte ad un povero, e che vanno dal concepire il sostegno come una sorta di elemosina pietistica da concedere nella misura minore possibile ed il più tardi possibile, ad un non disinteressato moralismo punitivo e populista. Moralismo punitivo, in quanto atteggiamento riconducibile al concetto che è giusto che il povero sia tale, dal momento che in definitiva lo ha voluto lui, e quindi è moralmente corretto che ne subisca le conseguenze. E populista, non molto meno di quanto sia tale la politica greca, in quanto dietro molte delle rigidità, in particolare tedesche, c’è il timore della Cancelliera Merkel di perdere i consensi di un elettorato al quale andrebbe invece spiegato come un’azione quale quella di cui parla Alexis Tsipras sia anche nell’interesse dei cittadini tedeschi, pur se non si tratta di quello immediatamente percepibile.
Per di più, non si è data al mondo intero, e soprattutto ai greci, la sensazione di proporre e concordare azioni rispettose dell’interesse di entrambe le parti, ma quella di un’unilaterale ingerenza negli affari interni, e quella che, dietro l’imposizione di misure recessive che renderanno di lunghissimo periodo la fragilità finanziaria ed i rischi di insolvenza, vi fosse l’interesse a creare un’area di protettorato economico.
Non era infatti molto difficile vedere nelle proposte di cessione di assets strategici qualcosa di molto diverso dalla vendita delle azioni del Canale di Suez da parte del Khedivè d’Egitto alla Gran Bretagna nel 1875, che fu la premessa del controllo britannico su quel Paese, durato sino al 1952.
Il che è cosa pericolosissima, soprattutto se attuata nei confronti di un Paese che, per quanto mal governato, possiede, condiviso da tutta la pubblica opinione, un fortissimo senso della propria indipendenza e della propria identità ed orgoglio nazionale, mantenuto in quattro secoli di dominazione ottomana, conquistato duramente in cento anni di rivolte e guerre contro i Turchi, e difeso altrettanto duramente nei confronti di italiani e tedeschi tra il 1940 ed il 1944. Ad un Paese che ha per propria festa nazionale il giorno dell’OCI, il NO dato all’ultimatum italiano del 28-10-1940, non riesce facile accettare il fatto che una Germania che non ha neanche pagato il corrispettivo dei danni e delle stragi dell’occupazione possa ora dettar legge.
Il rischio, gravissimo, è quello di vedere una Grecia messa nelle condizioni di non aver più nulla da perdere e di non poter fare altro, allontanarsi da un’Europa che, ove ciò si verificasse, avrebbe dato la più grande prova di miopia politica.
Di questo rischio si sono già visti, nelle ultime elezioni politiche, segnali inequivocabili nel non indifferente risultato dei nazionalisti xenofobi e reazionari di “Alba Dorata”. Fatto di cui le forze politiche e l’establishment finanziario greco, non esenti da colpe e responsabilità, farebbero bene a tener conto. Ma, ancor di più, farebbe bene a tenerne conto tutta l’Europa democratica.
Un’economia squilibrata.
L’Europa tedescocentrica non ha voluto o saputo comprendere le peculiarità della situazione greca: un Paese le cui vicende politiche, a partire dalla fine della guerra civile, e con la parentesi del regime militare di Papadopoulos, hanno sostanzialmente visto alternarsi più volte al governo partiti conservatori e di sinistra moderata, a loro volta in mano a dinastie familistiche come quelle dei Karamanlis e dei Papandreou; ma che, nei fatti, era controllato dall’èlite finanziario-armatoriale, che non aveva e non ha grande interesse ad un equilibrato e diffuso sviluppo economico del Paese, e tantomeno a vedervisi affermare una solida base industriale.
Nell’economia greca, il settore primario concorre per il 3,3% del PIL (media U.E. : 1,7%), e per il 12,5% della popolazione attiva; l’industria per il 17,9% del PIL (con l’eccezione di Cipro e Lussemburgo, è il dato più basso in tutta Europa: media U.E. : 24,8%), e per il 19,7% della popolazione attiva; ed infine il terziario vi concorre per il 78,8% del PIL (ad eccezione di Cipro, Malta e Francia, è il dato più alto in tutta Europa: media U.E.: 73,5%), e per il 67,8% della popolazione attiva.
La bilancia commerciale è cronicamente e strutturalmente in forte passivo, con importazioni che superano di 2-3 volte le esportazioni, ed un deficit che le entrate turistiche ed i noli marittimi della prima flotta mercantile al mondo (o almeno la parte “ufficiale” degli stessi) non arrivano a colmare.
Infine, la Grecia destinava nel 2010 il 4,4% del PIL alla scuola, il 6,7% alla sanità, il 4% alla difesa: il primo è il dato più basso in tutta la UE; il terzo è di gran lunga il più alto in tutta la UE, ed è il doppio di quello di Paesi come Polonia, Croazia, Norvegia: sembrerebbe che, nelle menti dello Stato Maggiore greco, la guerra fredda non sia mai finita, e che la secolare contesa con la Turchia richieda ancora il sostegno di una più che considerevole forza militare.
Bastano questi pochi dati per comprendere dove, in Grecia, stia la povertà e dove la ricchezza. Il rapporto tra addetti e PIL mostra i caratteri di un’agricoltura ancora in gran parte arretrata e condizionata dalle sfavorevoli caratteristiche fisiche di gran parte del territorio, con un reddito per addetto pari a circa il 26% della media nazionale; di un’industria debole ed a basso contenuto di innovazione, con un reddito per addetto pari al 90% della media nazionale; e di un settore terziario che, oltre che comprendere una pletorica Pubblica Amministrazione, è centrata sul turismo e sulle attività armatoriali ed i relativi servizi. In queste ultime si concentra il controllo delle maggiori attività economiche, la ricchezza ed i maggiori patrimoni del Paese. Il reddito per addetto del settore terziario risulta pari al 116% della media nazionale.
Pur essendosi alternati governi dal diverso colore politico, sono invece rimaste costantemente seguite la pratica delle assunzioni clientelari di amici e amici di amici in una Pubblica Amministrazione elefantiaca e poco efficiente, allargata e vezzeggiata da un populismo manifestatosi in una lunga serie di privilegi e protezioni sconosciuti agli altri settori della vita economica del Paese.
Basti ricordare che, nel 2010, c’erano oltre 700.000 dipendenti pubblici, più che raddoppiati rispetto ai 300.000 del 1982; grosso modo, questi costituivano il 25% degli occupati (media UE: circa 15%) e quasi il 7% dell’intera popolazione (per fare un confronto, i dipendenti pubblici italiani sono circa il 5% dell’intera popolazione).
A ciò si aggiunga l’aver tollerato il dilagare dell’evasione fiscale di massa e di una corruzione sistemica, che parte dai pochi euro per ottenere il rilascio di un certificato, ed arriva ai grandi scandali ed a far sì che il costo delle opere pubbliche e delle forniture allo Stato si dilati oltre misura; e ancora, non si è mai combattuto (o potuto combattere) l’intreccio tra elusione ed evasione fiscale e fughe di capitali, quasi strutturale anche perché, come si vedrà, reso facile dalla vocazione internazionale della parte più significativa del sistema economico-finanziario greco.
Pur resisi meno evidenti sinchè il PIL è continuato anno dopo anno a crescere, questi fenomeni hanno comunque sottratto risorse che sarebbero state necessarie per dotare il sistema economico greco di una più solida ed articolata base produttiva.
Il crollo iniziatosi nel 2008, reso più grave per via di un’economia particolarmente esposta all’andamento dei cicli economici, li invece ha portati in piena luce, rendendo evidente a tutti il loro operare come strumenti di stabilizzazione degli equilibri attraverso le reciproche concessioni tra pezzi diversi della società, (la politica, il ceto impiegatizio, il mondo finanziario), dissanguando i bilanci pubblici e lasciando ben poche risorse disponibili per realizzare o ammodernare infrastrutture, servizi, burocrazia.
Basti pensare che, ad oggi, la Grecia non dispone ancora di un sistema catastale completo.
Ma la massima responsabilità dei governi greci, senza che al riguardo si possano vedere grandi distinzioni tra gli uni e gli altri, sta nel non aver avviato e sostenuto un modello di sviluppo economico diverso da quello che è stato seguito dalla fine della guerra civile in avanti; la cui intrinseca fragilità economica e disparità sociale, pur prescindendo dalle degenerazioni in termini di populismo, corruzione, evasione, è all’origine della catastrofe attuale, di cui la crisi mondiale è stata sì il detonatore, ma non la causa ultima.
In particolare, l’industria greca, oltre che pesare relativamente poco nell’economia generale del Paese, è orientata verso alcuni settori di base (chimica di base, minerario-metallurgico, acciaio, raffinazione, cemento) e verso l’agroalimentare. Anche prima dell’esplodere della crisi, il settore manifatturiero e le industrie a più elevato valore aggiunto come la farmaceutica, incidevano ben poco sul reddito nazionale, e concorrevano solo per il 20% circa al totale delle esportazioni.
L’economia greca, fondata sul turismo, sui noli, sull’intermediazione commerciale, sull’edilizia, e quindi fortemente dipendente dall’andamento interno ed estero delle attività economiche e degli affari finanziari, delle aspettative di crescita, della propensione ai consumi ed agli investimenti, ha potuto reggere e svilupparsi pur in presenza delle degenerazioni dette sopra, finchè tutto è andato bene. Quando l’avvio della crisi ha costretto tutti, in Grecia e fuori, ad iniziare a fare i conti con realtà ben diverse, tutti i nodi sono venuti al pettine.
In realtà, le scelte strategiche e la politica greca sono sempre state condizionate da un’èlite più finanziaria che industriale, che ha la sua origine storica ed il suo polo di riferimento nelle attività armatoriali e nei servizi ad esse connessi (assicurazioni, servizi finanziari e tecnici, intermediazioni e brokeraggi, manutenzioni navali) e la sua voce in buona parte della stampa, di proprietà diretta o ad essa vicina.
Quella armatoriale è un’antica tradizione greca, che risale a tempi anteriori all’avvio della guerra di indipendenza, in quanto unica attività relativamente indipendente dal controllo turco, e che anzi godette largamente della protezione delle bandiere britannica, ed ancor più, in funzione anti-turca, russa.
Non a caso, i suoi centri vennero a stabilirsi in luoghi periferici ed isolati come Galaxidi, Hydra e Spetsai, In quei luoghi, e nelle isole Ionie che, attraverso Venezia, avevano mantenuto un legame con la cultura europea, iniziò a formarsi un embrione di borghesia nazionale, ma abituata a guardare oltre il mare e conscia quindi della debolezza e della funzione paralizzante dell’impero ottomano, e che fornì alla rivolta contro i Turchi la guida ed i primi uomini e mezzi.
Oggi, gli armatori greci controllano una flotta mercantile che ha dimensioni pari a circa il 18% del totale mondiale, e che è la prima al mondo per tonnellaggio. Anche in questi ultimi anni di crisi, essi sono i primi acquirenti di naviglio al mondo, per un importo di circa 4 miliardi di dollari l’anno. Della flotta sotto il loro controllo, solo poco meno del 20% è però sotto bandiera greca, il resto essendo sotto bandiere di comodo, ove i costi del personale imbarcato e gli standards di sicurezza sono inferiori. Quest’attività, agevolata fiscalmente, è in mano a pochi gruppi a netto carattere familiare, (meno di 500), e genera circa il 6% del PIL greco.
Caratteristica comune a questa èlite è il tradizionale e forte cosmopolitismo, dovuto anche alla peculiarità di un’attività che, uscita dal Mediterraneo, dalla fine dell’Ottocento guarda ormai al mondo intero. Essa vede i suoi centri di riferimento mondiali a Londra ed a New York; ieri misurava investimenti, ricavi, affari, intermediazioni, profitti, speculazioni, in sterline, oggi in dollari; è abituata ed attenta a cogliere con largo anticipo i minimi segnali di movimento dei fatti economici di tutto il mondo, dai quali potrebbero derivare opportunità o necessità di investimento o disinvestimento (detto per inciso, riesce difficile pensare che questa èlite si sia lasciata cogliere impreparata dalla crisi, come testimonia il già citato volume degli acquisti di naviglio).
E’ un’attività nata in Grecia; ma, sin dall’origine, e per sua intrinseca natura, è stata fortemente proiettata all’esterno, anche al di là della stessa Europa, nei confronti della quale venivano privilegiati i rapporti con la Russia degli zar, antiturca ed ortodossa, e soprattutto con l’Inghilterra del “rule the waves”.
Via-via, la visione globale si è sempre più allargata e si sono visti allentare i legami e gli interessi in comune con la terra d’origine: i centri finanziari di riferimento, i mercati, i cantieri ove si ordinano o riparano le navi, i porti di armamento e le bandiere della flotta mercantile greca, gli stessi equipaggi, sono sempre meno greci e, a parte il rapporto con la City, mai venuto meno, sempre più asiatici.
Non c’è granchè da stupirsi,allora, se la solidità della dracma non sia mai stata in testa alle preoccupazioni di gruppi che si erano adattati perfettamente ai lunghi periodi di inflazione, e che nel passato più recente, questi siano rimasti sostanzialmente indifferenti rispetto alle sorti dell’euro e dei titoli del debito pubblico.
Anzi, il deprezzamento della moneta nazionale, mezzo di pagamento del personale e degli altri costi interni, di fronte a proventi in dollari, poteva anzi essere l’occasione di vantaggiosi investimenti. Si è così assistito allo strano fenomeno di un Paese la cui èlite finanziaria ragionava, viveva, ed operava in valute estere, mentre tutti gli altri utilizzavano a tali fini la dracma, subendone le conseguenze.
E le forti internazionalizzazione e mobilità finanziaria del settore hanno offerto le condizioni e gli strumenti per rispondere all’alto tasso di instabilità politica della Grecia moderna ed alla debolezza della moneta.con il sottrarsi al fisco e con la creazione di disponibilità all’estero.
La stessa introduzione dell’euro, valuta ben più forte della dracma, ha modificato solo marginalmente questo quadro: se da un lato è venuta meno la possibilità di sfruttare l’inflazione della dracma, dall’altro è venuto ad accrescersi il peso relativo dell’establishment armatoriale-finanziario e dell’industria di base nell’economia greca. A ciò hanno concorso la minor competitività delle esportazioni, dovuta alla moneta forte, e la contrazione dei consumi reali dovuta ai larghissimi arrotondamenti nella trasformazione da dracme ad euro dei prezzi al dettaglio: fenomeni questi che hanno colpito, insieme ai consumatori, l’industria manifatturiera e la produzione di beni di consumo.
In presenza di una politica debole che, dovendo anche fare i conti con il rilevante apporto dell’establishment armatoriale-finanziario all’economia greca, non è mai stata in grado di prospettare e far maturare concezioni più aperte e moderne del comune interesse, non stupisce il fatto che questi gruppi non abbiano mai identificato le loro prospettive in un’evoluzione dell’economia e della società greche diversa da quella che in effetti è stata, e che li ha visti permanentemente ai vertici economico, sociale e, di fatto, anche politico.
D’altra parte, anche oggi, in un momento in cui la crisi paralizza il Paese, l’èlite finanziario-armatoriale ne è la meno toccata: sia perché, in termini oggettivi, la sua principale attività è scarsamente legata all’andamento specifico dell’economia greca; che per l’effetto di una serie di fatti soggettivi, quali l’elusione fiscale, l’esportazione di capitali, le rilevanti attività possedute o controllate all’estero.
Questi, non limitandosi ad osservare i dati grezzi d’insieme, sono alcuni aspetti della realtà greca, se esaminata più da vicino ed alla luce della sua storia e delle sue articolazioni.
La cura richiesta dall’Europa, oltre che essere insostenibile, allontana trasformazione e riequilibrio.
Tornando al rapporto tra Grecia ed Europa, sembra che la terapia che l’Europa ha imposto ai greci non tenga conto di queste articolazioni, con la conseguenza di indebolire ulteriormente i settori più deboli del Paese e, in conclusione, di rendervi impossibile il superamento degli squilibri di fondo che hanno determinato la gravità della crisi.
E’ ovvio che, in definitiva, la responsabilità di aver prodotto un debito insostenibile in quanto ad entità ed a servizio, debba ricadere sui greci. Ma, una volta stabilito questo fatto, occorre anche chiedersi se le politiche imposte dall’Europa non finiscano col produrre effetti perversi e di segno opposto a quanto viene dichiarato ed a quanto sarebbe necessario.
E la stessa Europa “forte”, con la Germania in testa, farebbe bene a chiedersi se la linea miope e sostanzialmente punitiva imposta ai greci, oltre che essere discutibilissima in termini politici, sia anche efficace e la meno costosa dal suo stesso punto di vista.
Le considerazioni da fare circa questa miopia sono di tre tipi: il primo, del tutto ovvio, è che le condizioni poste per gli aiuti sono in sé, ragionieristicamente parlando, insostenibili, e riassumibili nella metafora della cura che uccide il malato. La prospettiva che si è venuta a creare è quella della chiusura di infinite aziende pericolanti, nella svendita all’estero di quelle sane e degli assets appetibili; in sostanza, della colonizzazione dell’economia greca. Ma, di questo passo, non si fa che rinviare il problema, nel momento che si crea una spirale nella quale vengono ad avvitarsi ed autoalimentarsi recessione, debito, e rischio di insolvibilità.
E, quando, prima o poi, ci si renderà conto di ciò, e si dovrà scegliere tra l’abbandonare la Grecia al suo destino e l’adottare un piano del tipo di quello suggerito da Tsipras, saranno stati sprecati anni e miliardi.
C’è una seconda considerazione da fare.
Ammettiamo anche che vengano efficacemente combattute corruzione, evasione fiscale, sommerso, populismo, fuga dei grandi capitali, e che in un modo o nell’altro e sia pure al prezzo di costi elevatissimi, sia possibile tenere in equilibrio il Bilancio: ne seguirebbe che, osservando le cose da un punto di vista strettamente tecnico, la cura avrà avuto successo, in quanto i greci avranno grandemente ridotto o eliminato il loro deficit. Ma non il debito, per la qual cosa occorreranno diversi decenni.
A parte i costi sociali, dei quali a sinistra si è ampiamente detto, oltre che determinare un lungo periodo di recessione e di ridimensionamento globale dell’economia greca, ciò vi renderebbe impossibile ogni riequilibrio dell’assetto produttivo che, per vedere una definitiva stabilizzazione e prospettive di crescita più solide ed stabili, avrebbe invece bisogno dello sviluppo di un’industria manifatturiera autoctona e capace di proiettarsi verso i mercati esteri.
Il che richiederebbe il sostegno pubblico in quanto a infrastrutture e defiscalizzazioni legali connesse all’occupazione ed alla capacità di innovare e di esportare, e richiederebbe il capitale privato, anche estero, a finanziare le nuove iniziative necessarie a riequilibrare il sistema produttivo,
Tutte cose, queste, che richiederebbero una stabilità complessiva del sistema che può derivare solo da una sistemazione del debito sostenibile in quanto ad entità, tassi, e durata e tale da consentire la possibilità di destinare un’aliquota del PIL ad investimenti privati e pubblici; fatti, questi, del tutto impossibili da immaginare in una situazione che vedrebbe entrare in risonanza reciproca la recessione e la precarietà finanziaria.
L’effetto della terapia europea, oltre che quello di una lunga recessione, sarà così quello di rendere impossibile la modernizzazione della società e dell’economia greche, perpetuando la chiusura e gli squilibri dell’una e dell’altra. Il potere effettivo resterà in mano all’èlite armatoriale, il settore secondario si indebolirà ulteriormente, e gli eventuali capitali esteri affluiranno per acquisire servizi e settori monopolistici e poco sensibili al ciclo economico.
La terza valutazione da fare riguarda l’interesse che può avere l’Europa a vedere la Grecia, il più europeo dei Paesi del Mediterraneo orientale, indebolirsi e paralizzarsi in un’area sud balcanica e mediterranea tutt’altro che stabile, ed a veder affiorare fenomeni di nazionalismo xenofobo in un Paese che, per quanto imperfetta sia la sua democrazia, è pervenuto al parlamentarismo moderno ben prima di Italia, Germania, Spagna, ed al quale la cultura europea deve le proprie origini, nonché lo stesso termine di democrazia.
In quest’area, per quasi due secoli, la Grecia, pur con le sue difficoltà e contraddizioni, ha rappresentato un avamposto dell’Europa ed un fattore di diffusione della modernizzazione e della forma, se non sempre della sostanza, democratica dello Stato. Essa rappresenta una specificità culturale che ha resistito a quasi quattro secoli di dominazione ottomana, e che un’Europa dei popoli e delle culture non può permettersi di trascurare e perdere.
Ma non solo di questo si tratta: la Grecia rappresenta un mercato significativo, un nodo strategico verso Est e Suez, una capacità commerciale non indifferente, un grande potenziale ancora sfruttabile in termini di energia idroelettrica e di fonti rinnovabili, un patrimonio ambientale e culturale unico: tutti fattori, questi, che l’Europa avrebbe interesse a veder sviluppare.
La proposta indicata da Tsipras nell’articolo da cui questo ragionamento prende lo spunto (abbattimento del debito e moratoria della restituzione) è tutt’altro che “rivoluzionaria”, ed ha caratteri classicamente liberali ed utilitaristici (nel senso filosofico del termine): in definitiva, essa muove dal chiedersi, al di là di moralismi e populismi. quale sia il vero interesse dell’Europa,
Nell’ambito dell’Occidente moderno, vi sono stati anche altri precedenti di accordi simili all’accordo di Londra del 1953, di cui all’articolo citato. Basti ricordare il piano Dawes per la ristrutturazione dei debiti tedeschi nel 1924 e le ristrutturazioni dei debiti di guerra interalleati, anch’esse degli anni ’20 del secolo scorso: tutte operazioni condotte da governi a carattere decisamente conservatore e senza mettere in discussione i numi del capitalismo. Piuttosto, rivolte pragmaticamente, e nell’interesse di tutte le parti in causa, a riportare ad equilibrio situazioni di insostenibilità.
Certo, è necessario che i greci facciano la loro parte, ad iniziare da una seria lotta alla corruzione ed all’evasione ed elusione fiscale, dalla riduzione delle spese militari, e dalla progressiva riduzione dei costi delle pubbliche amministrazioni. E dal destinare ogni risorsa che un abbattimento del debito rendesse disponibile ad adeguare le infrastrutture, ad agevolare i settori manifatturieri e tecnologici, nonché quelli più orientati all’esportazione.
E’ ragionevole pensare che ciò sia un buon affare per la Grecia. Ed anche per l’Europa.
Fonte: http://www.spazioliblab.it/