Cultura della violenza: la deriva del web
La notizia è che il web non potrà disfarsi della violenza. Non in tempi brevi almeno. A dirla tutta le previsioni di più di 1500 tra esperti, manager e studiosi, raccolte dai ricercatori di Pew Research Center ed Elon University non sono affatto ottimistiche e sembrano essere perlopiù concordi sulla deriva peggiorativa del fenomeno.
Ma si tratta veramente di un fenomeno?
Se lo si continua a guardare da una prospettiva di idealizzazione del web, inteso come opportunità di costruzione ed emancipazione, probabilmente si può parlare di fenomeno involutivo. Se, più opportunamente, consideriamo la violenza come caratteristica intrinseca dell’uomo, correlata alla sua natura ed al suo modo di rapportarsi con la realtà che lo circonda, i termini del discorso cambiano radicalmente.
L’uomo è un animale asociale, sosteneva il filosofo Thomas Hobbes nel suo “Leviatano”, in aperta contrapposizione a quanto affermato da Aristotele nella sua celebre definizione dell’uomo quale animale politico. L’uomo sembra nutrire l’esigenza di confronto con gli altri suoi simili nella misura in cui questo gli permetta di distinguersi e, nei casi estremi, di prevalere.
Si potrebbe, semmai affermare che l’uomo è un animale politico, perché è riuscito a politicizzare persino la propria violenza animale. È riuscito nei millenni ad associare substrati culturali, politici, religiosi e persino ludici al proprio atavico bisogno di violenza fisica e verbale.
Comunità virtuale
Proprio di quest’ultima pare alimentarsi in maniera compulsiva il web, ed in particolar modo, alcuni suoi aspetti, quali social network e blog, ossia quelle realtà comunitarie virtuali nelle quali sostanzialmente vige la quasi totale libertà di espressione.
Proprio la possibilità di interazione tra gli utenti delle piattaforme virtuali, ha fatto registrare un’impennata nell’esibizione sempre più esasperata di comportamenti incivili e violenti. Come se fosse saltato il tappo di contenimento di tutto il livore, la rabbia e la frustrazione che le convenzioni sociali sono finora riuscite a tenere a bada. Bastano un paio di commenti a far saltare il dibattito, trasformandolo in rissa verbale. Gli argomenti sono i più svariati e assurgono perlopiù a mero pretesto per passare all’offesa prima virtuale e poi, in numerosi casi, reale, fisica, con conseguenze più che gravi per gli attori.
Viene definito cyberbullismo, ma è diretto discendente della mai sopita voglia di lapidazione, di messa alla gogna e sopraffazione del “reo” di turno.
Violenza e deumanizzazione
Si assiste, così come osservato dalla professoressa Chiara Volpato dell’Università Milano-Bicocca, in maniera sempre più tangibile, ad un fenomeno di “deumanizzazione” dell’interlocutore o della vittima di turno, complice anche la condizione di anonimato nella quale si crede di agire. Si parte dal presupposto che l’altro sia da considerarsi alla stregua di un oggetto o un animale repellente da sopraffare e mettere alla berlina o esibire come trofeo di una caccia senza morale, che molte volte parte invece da pretese lezioni di morale religiosa, politica o sportiva.
A questo punto il pessimismo, del tutto giustificato degli esperti interpellati, arriva a paventare un rafforzamento ed una applicazione sempre più massiva dei sistemi di sorveglianza online, con inevitabile danno alla libertà d’espressione. Una svolta autoritaria nei controlli della rete, sancirebbe di fatto un sistema di ingerenze e di manipolazione statale nella comunicazione tra gli internauti e nel modo di veicolare l’informazione da parte degli operatori.
C’è chi ancora nutre una certa fiducia nel possibile miglioramento del cyberspazio, confidando soprattutto sulla elaborazione di sofisticati algoritmi in grado di rendere le piattaforme più sicure “epurandole” da violenti e troll.
Se non è stato in grado di renderci più edotti, il web è sicuramente riuscito a rendere spaventosamente visibile tutto il livore che anima chi, magari prima del suo avvento, non avrebbe avuto alcun modo di esternarlo. Ci ha resi elementi di una grande slavina culturale tuttora in movimento ed i cui effetti sono già intuibili e, purtroppo, poco confortanti.
di Massimo Caruso