Quando, nel 1978, la Cina si aprì alla modernizzazione, scelse di tenere un profilo basso per inoltrarsi nel mondo, e fu un atteggiamento che gli permise di fare molta strada senza incontrare ostacoli imprevisti. D’altronde il Dragone (ancora gracile) sapeva esser discreto e badava al sodo. Democrazie o dittature a lui non importava, trattava (e tratta) con tutti per avere ciò che gli interessa. Materie prime, gas, petrolio, come pure terreni da sfruttare in esclusiva (e chi se ne importa di bazzecole come la bio diversità o le esigenze alimentari dei Paesi che glieli concedono, pur di saziare la fame antica d’un popolo troppo grande); e in più commesse per costruire infrastrutture in tutto il mondo.
A poco a poco, passo dopo passo, Africa, Sud America, il Golfo con il suo petrolio, e ancora Australia e Sud Est Asiatico hanno visto divenire la Cina una protagonista sempre più sicura (e ora più ingombrante).
Ma le cose col tempo vanno cambiando, e col crescere del peso del Paese, e di quello dei suoi investimenti nel globo, quel profilo basso è andato mutando. Intendiamoci, è più che naturale che una nazione tuteli i propri interessi e che voglia contare sullo scenario internazionale in proporzione al proprio peso. Il fatto è che c’è molto più di questo nell’atteggiamento che il Dragone ha via via assunto. La fame sempre più insaziabile di materie prime, di energia, di commesse e di mercati del proprio “modello di capitalismo di successo” (come lo definisce), lo spinge ad un comportamento che, nella sostanza, comincia a non distinguersi più da altre forme di imperialismo, e, al contempo, suscita tensioni crescenti con i paesi dell’area e non solo, che sentono sempre più minacciata la propria sfera d’interessi.
Cina e il riarmo
E questo anche perché la Cina, di pari passo col suo crescere di statura, ha posto mano a un riarmo imponente: per far qualche numero, le spese ufficiali per la difesa sono passate dai 30 mld di $ del 2000 ai 106 mld di $ del 2012, ma badate, son numeri bugiardi, vista la scarsa (o nulla) trasparenza dei dati forniti, e molti sono gli investimenti occultati sotto altri capitoli di spesa, tanto che talune agenzie internazionali come il S.I.P.R.I. o la R.A.N.D., stimavano per difetto in 120 mld di $ la stima già per il 2010. In campo aereo, navale, missilistico e anche terrestre la Cina si è lanciata nello sviluppo e nell’acquisizione di avanzati sistemi d’arma, con il dichiarato obiettivo di assicurare alle proprie F.A. una dimensione e una capacità operativa nettamente superiore a quelle dei vicini (e anche più lontani).
Il messaggio del Dragone è chiaro: per saziare la sempre più sfrenata sete di risorse, è intenzionato a mettere in gioco tutto il proprio peso, ora anche militare. Attenzione, non è che la Cina pensi di mettere a breve “scarponi sul terreno” in qualche guerra imperialista, sin’ora ciò che l’ha interessata è stato proteggere le “blue waters” su cui corrono le rotte che le portano un ininterrotto flusso di materie prime e lungo le quali spedisce una valanga di merci dirette in tutto il mondo, e controllare i punti focali di queste rotte procurandosi basi o punti di appoggio.
La Cina di proiettare la propria egemonia su tutto il Pacifico Occidentale
Ma qui avviene il cambiamento, che è stato graduale, secondo la vecchia dottrina di Deng Xiaoping, ma inflessibile. Ora nasce l’ambizione di proiettare la propria egemonia su tutto il Pacifico Occidentale. E qui si scontra con il colosso Usa, che vuole frenare le ambizioni del nuovo venuto.
Per infrangere questi vincoli, e far “perdere la faccia” agli avversari (elemento da non sottovalutare mai in questa area), al Dragone occorreva scegliere un campo di scontro su cui ritiene di avere buone carte. Ed è da qui che nasce l’affare delle Senkaku che i Cinesi chiamano Diaoyu, otto scogli disabitati, circa 7 km quadrati in tutto, a meno di 200 miglia dalla costa giapponese delle Ryukyu, ma a meno di 200 miglia della costa di Taiwan che pure le rivendica; e poiché per Pechino Taiwan è Cina, le rivendica anch’esso.
L’affare delle Senkaku
Giapponesi dal 1895, dopo la Seconda Guerra Mondiale, con il trattato di S. Francisco, vennero affidare agli Usa come parte della Prefettura di Okinawa, per tornare al Giappone nel 1972. Ma perché rivendicare proprio quegli scogli? Sono acque assai pescose, ma basta? No. Nel Mar Cinese Orientale il fondale è tale da permettere senza grandi sforzi l’estrazione di petrolio e gas, e laggiù, nella piattaforma continentale fra Giappone e Taiwan, secondo la più recente stima cinese (anche se deve esser presa con le pinze) ci sarebbero circa 213 mld di barili di petrolio, la più grande riserva fuori dal Golfo.
Ecco il motivo che dal 1969, data dei primi rapporti in merito, ha fatto nascere la contesa che da allora si va rinfocolando e aggrovigliando con nuovi fattori. Provocazioni, atti dimostrativi e incidenti si sono da allora succeduti, ma è dall’aprile del 2012, quando il governo giapponese ha acquistato le isole dai privati rendendole demanio pubblico, che la tensione s’è acuita.
Normalizzazione tra Stati
Per far comprendere che sia materia seria, basta riflettere sul fatto che c’erano voluti decenni per normalizzare i rapporti fra i due Stati, avvenuta solo nel 1972. Poi, alle soglie del 2000, gli scambi commerciali erano cominciati ad infittirsi e Nissan, Honda, Toyota, Mazda e Sony, solo per citare alcuni nomi, avevano fatto da apripista a un flusso di interscambi che aveva superato l’intero ammontare dell’export italiano. Dal settembre 2012, quando è cominciata da ambo le parti un’escalation di provocazioni, in Cina le vendite di prodotti giapponesi sono crollate, per la gioia delle industrie Sud Coreane come Hyundai e Kia, come pure s’è inaridito il flusso dei soldi (e parecchi) portati in Sol Levante da milioni di turisti cinesi (che hanno cambiato destinazione).
I danni, come si vede, sono tanti, ma nessuno dei due pigia sul freno, anzi, come si sa, nel novembre scorso la Cina ha proclamato unilateralmente l’area zona esclusiva di difesa aerea (peraltro già più volte violata sia dagli Usa che dal Giappone, con tutti i rischi di un incidente dagli esiti imprevedibili). È ormai un vero groviglio di ragioni montate nel tempo che la spinge: economiche (come detto il petrolio e la pescosità dell’area); politiche (la leadership cinese vuole mantenere il monopolio del potere garantendo lo sviluppo economico, ma anche assecondando le pulsioni nazionalistiche che esso stesso ha incentivato per far dimenticare la pesante repressione di ogni dissenso); strategiche (la volontà di piegare l’egemonia Usa in quelle acque).
La risposta del Giappone
E il Giappone finisce per rispondere allo stesso modo, sventolando anch’esso la bandiera del nazionalismo; così agli ambiziosi programmi navali della Cina, risponde con un massiccio piano di acquisizioni di sistemi d’arma avanzati del valore di 240 mld di $ in cinque anni. Resta il fatto che il clima nell’area si fa rovente, con risultati fino a pochi anni fa impensati: vedere Cambogia, Filippine, Vietnam e Indonesia avvicinarsi al Sol Levante in chiave anti cinese è proprio strano se la storia ha un senso. Ma tant’è, le zanne del Dragone fanno paura e il suo messaggio di egemonia è forte e chiaro.
Resta la speranza che nessuno s’intestardisca a rilanciare pensando a un bluff dell’altro, perché nessuno può permettersi di perdere la mano. Né Cina, né Giappone e neanche gli Usa che per ora guardano sempre più inquieti. Ultima notazione: se si riuscisse ad essere distaccati, la vicenda sarebbe l’ennesima dimostrazione d’un assioma vecchio quanto la storia: ogni nuovo imperialismo che sorge genera crisi e quasi sempre guerre. Visto ciò che è in gioco, speriamo che questa volta vada meglio. Ma è solo una speranza contro la storia.
di Salvo Ardizzone