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Zambia: sfruttamento e miseria, il nuovo colonialismo di Pechino

di Salvo Ardizzone

Alla gente importa assai poco dello Zambia, un Paese remoto dell’Africa Australe; se abbiamo voluto parlarne è perché laggiù il meccanismo del nuovo imperialismo, che sfrutta e assoggetta i Popoli col denaro, è più che mai sfacciato.

Lo Zambia, col Congo, fa parte della “copper belt”, un bacino straordinariamente ricco di rame, che rappresenta il 70% dell’export del Paese, il 12% del Pil e il 10% dell’occupazione: in poche parole è l’asse portante dell’economia. Ad operare sono le più grandi multinazionali del settore: Glencore, Barrick Gold, First Quantum Minerals e la Cnmc cinese, che si dividono la ricca torta spremendo Paese e lavoratori il più possibile, tanto che da tempo è un crescendo di disordini e scioperi per chiedere aumenti salariali e diminuzioni dei durissimi turni di lavoro.

Il vecchio presidente, Michael Sata, morto nell’ottobre scorso, aveva provato a usare con loro un mix di fermezza e di concessioni e, da ultimo, aveva varato una legge, che dopo molti rinvii dovrebbe entrare in vigore in questi giorni, che triplica il prelievo dello Stato sui profitti delle aziende estrattive.

La reazione delle Corporations è stata quella di bloccare i nuovi investimenti e minacciare di lasciare in tronco il Paese; unica fuori dal coro è stata la Cnmc cinese, che ha fatto sapere che rimarrà e continuerà ad investire comunque.

Il motivo di quest’apparente accondiscendenza è duplice: primo, perché è un’azienda statale e Pechino, ormai da molti anni, sostiene coi propri fondi smisurati una politica di lungo periodo tesa ad assicurarsi le materie prime africane, sottraendole alla disponibilità della concorrenza. Secondo, la Cina, grazie ad un rapporto economico privilegiato assicurato da investimenti (e da corpose mazzette), da anni dispone di due Zone Economiche Speciali (Zes): una dedicata interamente al rame, l’altra a una molteplicità di prodotti; nelle Zes, la tassazione applicata dal Governo alle aziende che vi operano (ovviamente tutte cinesi) può essere costantemente rivista (al ribasso).

In questo scenario, Pechino si augura che la nuova tassazione sia introdotta, perché metterebbe in difficoltà le altre Corporations assai più che la sua e, nel caso probabile che lasciassero il campo, si troverebbe da sola a gestire un monopolio. Inoltre, è interessata a diversificare i propri investimenti diretti (che nel 2014 ammontavano già a 2,6 Mld di $) non solo nel comparto minerario, ma sempre più nel comparto agricolo, occupando spazi enormi (e nelle terre migliori) a prezzi bassissimi, per le esigenze alimentari del proprio Paese (ovviamente a scapito di quelle dello Zambia).

Una fuga di investitori stranieri tranne quelli cinesi, conferirebbe a Pechino un potere contrattuale enorme, per gli uomini vicini al potere nello Zambia addolcito dalle mazzette che la Cina è abituata ad elargire, ma soffocante per la popolazione vessata da sistemi di lavoro inumani.

Il neo Presidente eletto a gennaio, Edgar Lungu, ne è pienamente consapevole, e ha in programma di trattare con le altre Corporations per evitare che a un pesante monopolio si sostituisca un monopolio schiacciante.

Nello Zambia, come in tanti altri Paesi africani, l’alternativa è sempre più la stessa: o sopportare lo sfruttamento delle multinazionali, con tutto ciò che comporta in termini di asservimento, corruzione e assoggettamento delle popolazioni a un regime di lavoro simile alla schiavitù; o affidarsi a un monopolio che aggrava tutte le già gravi condizioni dell’oligopolio, e ha per ottica solo la sistematica spoliazione dei Paesi.

È questo il nuovo colonialismo, che vede per massima protagonista la Cina.

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