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I traffici indisturbati dell’Isis e la connivenza americana

di Redazione

Che la rendita petrolifera fosse uno dei principali introiti dell’Isis era risaputo, ora un rapporto del Financial Times documenta che solo negli ultimi dieci mesi ha ricavato introiti per 450 ml di $ dai campi dell’Iraq settentrionale, a cui s’aggiungono quelli di al-Jabsa e al-Omar nella Siria orientale. Ovviamente non può coltivare al meglio i pozzi, ma si tratta pur sempre di una produzione che, secondo le stime, arriva fino ai 40mila barili al giorno.

Ciò che non gli manca è a chi vendere: in tutte le aree che controlla è l’unico che può fornire carburante raffinato in parte in vecchi impianti rimessi in funzione, in parte in piccole raffinerie messe su e gestite da tecnici e ingegneri reclutati con contratti da sogno. E non solo: in molti casi, attraverso intermediari, vende il petrolio al mercato nero in Turchia ricavando una pioggia di denaro.

Intendiamoci, il greggio è solo una delle fonti di finanziamento del “califfo”, accanto ai taglieggiamenti della popolazione, al traffico di armi, al traffico di reperti archeologici provenienti dai tanti siti saccheggiati, ai pedaggi su ogni merce che passa dai territori che controlla e ad ogni altro tipo di contrabbando e ruberia. Però necessita di impianti fissi facilmente localizzabili.

E qui vien fuori la domanda: perché gli aerei della coalizione internazionale a guida Usa, invece di buttar bombe nel deserto (quando, nel 70% dei casi, non ritornano senza aver sganciato) non distruggono quelle infrastrutture perfettamente conosciute e visibili?

All’inizio delle operazioni, nel 2014, gli aerei dell’Air Force iniziarono ad attaccarle, ma smisero presto lasciando del tutto indisturbati i traffici di gran lunga più fruttuosi per il “califfo”. È la più plateale delle conferme di un accordo basato sulla reciproca convenienza.

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