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Yemen, la Resistenza che sta cambiando gli equilibri della regione

Lo Yemen è un Paese dimenticato dai media e lontano dall’attenzione della gente, ma laggiù è in corso una transizione sanguinosa che a breve potrebbe mutare radicalmente gli equilibri della regione. Non ci sono risorse né ricchezze, è poverissimo, di qui il disinteresse di gran parte del mondo per le sue vicende; è una distesa arida e in buona parte montagnosa vasta poco meno della Francia e i suoi oltre 24 milioni di abitanti tirano una vita grama, divisi in clan e tribù come nel remoto passato.

Per 22 anni è stato retto come cosa propria da Abdullah Saleh, che è stato prima presidente dello Yemen del Nord quando il Paese era diviso, e poi dell’intera Nazione dopo la riunificazione con il Sud, fino al 2011, quando un crescendo di proteste lo costrinse alle dimissioni. Da allora instabilità e conflitti sempre più aspri hanno caratterizzato la scena d’un Paese sempre più lacerato.

Mentre una Conferenza Nazionale, conclusasi nel gennaio scorso, disegnava la struttura del nuovo Stato con la partecipazione di tutte le parti, le armi continuavano a sparare: al Nord i ribelli Houthi, tribù sciite per lunghi anni perseguitate che ora si sono organizzate nel movimento Ansarullah, hanno sbaragliato sia le milizie legate all’Islah (che comprende la Fratellanza Musulmana e i gruppi salafiti), sia quelle del potente gruppo tribale degli Al-Ahmar, sia le formazioni di Al-Qaeda nella Penisola Arabica (Aqap), fin’ora assai potente in estese aree del Paese; adesso, dopo varie vicende, hanno allargato la zona da loro amministrata con una sorta di governo autonomo dal confine Saudita fino ad Amran, alle porte della capitale Sana’a. Inutilmente l’Esercito regolare ha provato ad opporsi: la 310^ Brigata è stata costretta ad arrendersi malgrado l’intervento dell’aviazione (e gli aiuti da parte dell’Arabia Saudita).

Nel frattempo, il General People’s Congress (Gpc) del vecchio presidente, nel disordine generale ha ripreso posizioni, continuando a scontrarsi coi propri nemici dell’Islah e degli Al-Ahmar. Ora Saleh, malgrado quando era al governo avesse ordinato ben sei campagne militari di repressione contro gli Houthi, appoggia apertamente i ribelli sciiti, pensando di servirsene per spazzar via i comuni avversari. 

Ad agosto, cogliendo l’occasione di una serie di tagli ai sussidi e di rincari dei beni di prima necessità e facendo propri gli slogan anti corruzione ed anti sistema della vecchia rivolta contro Saleh, Ansarullah ha dato una spallata al Governo Centrale. I miliziani, confluiti a Sana’a, dopo manifestazioni e scontri armati con gli oppositori hanno preso il controllo della capitale nell’assenza di una seria reazione delle forze di sicurezza che si sono letteralmente squagliate.

Dopo lunghe trattative, il 21 settembre, è stato siglato fra le parti l’Accordo Nazionale di Pace e, una settimana dopo, gli Houthi hanno sottoscritto anche l’allegato all’Accordo, che dovrebbe regolare la parte militare dell’intesa.

L’Accordo, piuttosto lungo ed articolato, firmato da tutti i soggetti politici yemeniti di peso, dovrebbe regolare il passaggio ad un nuovo Governo, la riscrittura della Costituzione e la definizione di una serie di misure contro la sfacciata corruzione e i nepotismi, ancora in uso dai tempi di Saleh, che continuano a dissanguare le casse dello Stato. Ciò che però è maggiormente determinante, è il contenuto dell’Allegato, che regola sostanzialmente il disarmo delle milizie, la cessazione delle ostilità e il ritiro dei gruppi armati da varie parti del Paese.

La cosa più probabile è che esso rimanga lettera morta, perché da parte di tutti gli altri attori della scena non viene colta la “diversità” di Ansarullah, che continua ad espandere la sua zona di influenza ai danni di gruppi tribali, salafiti e qaedisti.

Il movimento Houthi non è semplice emanazione della minoranza sciita, né è organizzato per i suoi esclusivi interessi; esso si rifà espressamente al movimento di resistenza libanese di Hezbollah, con la sua visione anche interconfessionale, radicata sul territorio, forte sia sotto l’aspetto militare che sociale. La forza di Ansarullah non si basa semplicemente sull’efficienza delle sue milizie, ma sull’universale consenso che le deriva dalla qualità dell’amministrazione dei territori controllati e dei servizi di welfare organizzati per le popolazioni: è insomma uno Stato nello Stato, con forti connotazioni ideologiche e non tribali.

Una tale impostazione, assolutamente innovativa per il Paese, non solo sta ridimensionando drasticamente il potere dei gruppi tribali come gli Al-Ahmar, con tantissimi clan sunniti che passano con gli Houthi; erode il consenso della Fratellanza e dei gruppi salafiti dell’Islah e riduce enormemente l’agibilità dei gruppi qaedisti come Aqap e Ansar al-Sharia; ma è anche destinata a collidere frontalmente con il blocco di potere del vecchio presidente Saleh, a cui sta drenando la base di consenso basata su ricatti e clientelismo.

Saleh, che ha puntato su Ansarullah per sbaragliare i propri avversari dell’Islah e degli Al-Ahmar, alle prossime elezioni vorrebbe lanciare il proprio figlio Ahmed come capo dello Stato, ma dovrà fare i conti con un movimento sempre più potente e radicato ed impermeabile alle logiche di corruzione cui è abituato.

Resta la minaccia dei gruppi qaedisti che, scalzati dagli Houthi dalle proprie storiche roccaforti, intendono vendicarsi instaurando una stagione di attentati e di sangue, le cui avvisaglie già s’avvertono. In questo sono sostenuti da un’Arabia Saudita che, dopo aver tentato di tutto per schiacciare Ansarullah, vede ai propri confini un movimento di cui il suo sistema dispotico e corrotto teme il contagio come la peste. Per la casa regnate wahabita, un simile vicino potrebbe essere l’inizio del tracollo.

di Salvo Ardizzone

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