Usa: shale gas, risorsa o disastro ambientale?
Il boom dello “shale gas” negli Usa venne a ridosso della crisi del 2007, in nome dell’indipendenza energetica; allora, alcune piccole aziende petrolifere in cerca di nuovi investimenti redditizi per sopravvivere, sfruttando nuove tecnologie da poco apparse, si lanciarono nell’affare che divenne fenomeno di massa.
Nel sottosuolo americano c’è tanto, tantissimo petrolio e gas frammisto alle rocce; per il petrolio è un discorso a parte (è una materia prima molto diversa, con un mercato suo assai interconnesso), per il metano era in buona parte terra nuova. Per sfruttarlo con la tecnica del fracking (frammentazione), si scava un pozzo e poi si segue la formazione rocciosa satura di gas, frantumandola con getti potentissimi di acqua mista a sabbie dure o ceramiche, miscelata con componenti chimiche che liberano il gas.
È stato un boom che ha fatto impennare le azioni delle società che vi hanno scommesso e spinto tante altre a entrare nell’affare, in nome di guadagni immediati (che non ci sono e non ci sono stati se non sulla quotazione delle azioni), innovazione e indipendenza energetica.
Allora tutto bene? Non proprio, anzi, per nulla. Passati pochi anni e superata l’ubriacatura degli inizi, si fanno alcuni bilanci; intanto il mercato americano è assai particolare: è un mercato chiuso che, per una vecchia normativa, proibisce di fatto l’esportazione di gas. Inoltre, il gas, come detto, non è il petrolio e per trasportarlo e renderlo fruibile occorrono investimenti fissi imponenti, tutt’altra cosa che il greggio.
I pozzi dello “shale”, poi, sono assai più costosi (occorrono 4/6 ml di $ per impiantarne uno, a fronte dei circa 800mila $ di quelli tradizionali) e si esauriscono presto: hanno una produzione ottimale nel primo anno, che decresce rapidamente fin quasi a 0 nel quarto. Così le compagnie son costrette a scavare sempre nuovi pozzi (si parla di 20mila perforazioni l’anno!) per mantenere una produzione che, in un mercato chiuso come quello americano, vale sempre meno per l’aumento dell’offerta. E i risultati si vedono: da un’indagine svolta su 20 compagnie indipendenti attive nel settore dal 2009 al 2013, i flussi finanziari fra gli investimenti e i realizzi sono risultati negativi per tutte e 20; in poche parole, alla fine non hanno fatto quattrini ma debiti.
Ma non è neppure questo il cuore del problema; insieme al bilancio finanziario se ne è cominciato un altro, quello ambientale, e i risultati sono stupefacenti. In un rapporto Federale del 2011, che prendeva in esame il periodo 2005-2009 (e il boom vero era agli inizi), si diceva che nel sottosuolo erano stati pompati 3 milioni di metri cubi di liquidi addizionati all’acqua. Questi liquidi erano (e sono) costituiti da almeno 2.500 prodotti industriali composti da circa 750 elementi risultati in vasta parte cancerogeni. Elementi che, sparati nel sottosuolo, finiscono in gran parte nelle falde idriche. E come detto, l’indagine si ferma al 2009, ora i numeri sono esponenzialmente superiori.
Il fatto è che quando nel 2005 fu varato l’Energy Act di Dick Cheney, di fracking non si parlava ancora, così, in assenza di regolamentazione, le compagnie han fatto ciò che hanno creduto. Ora gli stati, dinanzi alle inviperite proteste dei cittadini, hanno cominciato a porre molte restrizioni: New York, il Delaware River, Pennsylvania e New Jersey hanno posto una moratoria sulle attività e la municipalità di Los Angeles ha fatto lo stesso (a proposito: è stata pure conclamata una correlazione fra terremoti e un’intensa attività di fracking in zone ad alto rischio sismico, vedi ad esempio la California).
Mettendo in fila tutte queste cose, se non sarà possibile indirizzare questo gas su mercati diversi da quello americano, disposti a pagare assai di più, sarà un doppio disastro: da un canto ambientale (per le caratteristiche dell’estrazione in sé e perché i bassi ricavi non danno i margini per migliorare le tecniche), dall’altro economico, con un’altra bolla speculativa pronta a scoppiare.