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5G: un giorno nella vita di Alice Mirela

5G – In questa camera il letto è al centro della stanza. Tutte le prese di corrente sono state coperte e la lampadina avvitata alla lumiera non è di quelle a basso consumo. Non c’è alcuna sveglia. Non c’è nemmeno un tablet appoggiato sul comodino e meno ancora un telefono cellulare che resta in bilico tra il materasso e il pavimento, come succede quando ci si addormenta mentre si naviga in rete. Non c’è lo schermo piatto di un televisore al plasma appeso alla parete o un computer sulla scrivania. Non c’è niente che si possa accendere o spegnere, niente che si possa connettere in rete o che possa fare a meno di cavi per funzionare.  

In compenso c’è una persona che dorme ancora, nonostante il sole abbia fatto capolino dalla finestra e inizi ad allungarsi verso il letto. Lei si chiama Alice Mirela e vive in una zona periferica di un piccolo paese di campagna, a una ventina di chilometri da un grande centro abitato. Da qualche anno ha lasciato le sue giornate in città, tra lo schiamazzo dei clacson e lo stridio dei tram sulle rotaie. Quello che aveva costruito durante gli anni d’università e nelle prime esperienze di lavoro come traduttrice, non c’è più. Ogni cosa è stata spazzata via dalle onde che s’irradiano invisibili nei grandi centri abitati.

La strada in cui viveva, come dentro a un incubo, ha iniziato a essere costantemente battuta da flussi elettromagnetici, come una scogliera presa d’assalto da un mare in tempesta. Non solo il viale alberato in cui s’innalzava possente l’edificio in cui abitava, ma ogni altro posto della città, ogni angolo di ogni quartiere ha avuto la stessa sorte. Alla fine non le è rimasto alcun luogo in cui ripararsi e lei non ha avuto altra scelta che ritirarsi nella cascina, all’uscita del piccolo paesello in cui ora sta per svegliarsi.

Tra non molto si alzerà da quel letto, appoggiato al confine del mondo, e andrà in cucina, dove farà bollire l’acqua del suo caffè. I quattro fuochi del suo fornello non sono come quelli moderni, con i piani cottura elettrici fatti di vetroceramica, dove i bruciatori sembrano occhi incandescenti che s’illuminano in profondità. Le sue fiamme nascono azzurre dalla combustione del gas, per trasformarsi in oro, come il fuoco vivo di un falò.

È a quell’ora del mattino, che di solito ripensa alla vita andata e ne sente la mancanza. Non ha rinunciato a ogni cosa con piacere, spegnere un dispositivo dopo l’altro le è costato tanto, ma non ha avuto scelta. Alice ha dovuto imparare che si può fare a meno di tutto, tranne che della salute. Quando la malattia è venuta a trovarla le prime volte, nemmeno lei ci aveva dato tanto peso. Tutte quelle emicranie, quei sensi di vertigine e ogni altro malanno, li aveva letti come il prezzo di una vita attraversata sempre di corsa.

Poi, però, la malattia ha occupato nella sua vita lo stesso posto che si prende l’ombra. Un’immagine oscura ha iniziato a seguirla in ogni posto, e, ovunque lei si voltasse, quell’immagine la osservava da ogni lato, come in una casa di specchi. Per quanto le è stato possibile, ha cercato di nuotare in quel mare di emissioni elettromagnetiche. Ha vissuto un’esistenza in fuga, scappando da qualcosa che non riusciva a vedere e che le correva dietro, come un vento desideroso di spettinarle i capelli. Poi, quando si è resa conto che non era possibile legare a un palo la sua ombra, si è arresa e ha dovuto riconoscere che il suo male aveva un nome: elettrosensibilità.

A sentirlo pronunciare così, non pare nemmeno tanto brutto. È un composto di sensibilità, l’attitudine del ricevere impressioni attraverso i sensi, una qualità che hanno gli artisti e i creativi. Così sono spesso le parole, amano travestirsi, per poi sorprenderti quando sei troppo vicino per evitare danni. Anche sieropositività è un composto di positività, ma significa tutt’altra cosa.

Alice Mirela è una traduttrice e, nonostante la malattia le impedisca di lavorare per tante ore al giorno, le parole restano le sue migliori amiche. Spesso ha pensato alla stranezza del suo cognome. Tre note: mi, re, la. Tre sillabe impigliate dentro a una rete chiamata pentagramma. Se il destino fosse scritto nel nome, lei avrebbe molto da temere, ora che, con gran chiasso, anche il suo paesello prepara la fanfara per l’arrivo di un pentamostro chiamato 5G

Ora Alice è seduta alla sua scrivania e non vuole pensare a quello che succederà una volta che la quinta generazione sarà implementata. Si concentra sul suo lavoro e, a mano, traduce su fogli di carta la storia di una ragazzina, finita in un mondo di non senso che tanto le ricorda la sua situazione. Andrà avanti così fino a sera, conducendo a una a una le parole, perché di là dal confine incontrino le loro sorelle, evitando così di essere maltrattate in una community dove grammatica e contenuto hanno meno follower di un chihuahua che ha imparato a dire I love you.

Dopo aver passato una giornata in compagnia del capolavoro di Lewis Carroll, Alice è pronta per tornare a letto. In cuor suo desidera ritrovarsi nel suo personale paese delle meraviglie. Un posto dove nessuno la guarda con l’espressione “sì, certo, l’elettrocoso”; dove, ogni tanto, le sue amiche sono disposte a rinunciare per una serata alle luci della città, per farle visita in campagna; dove un uomo bussa alla sua porta, dicendole che lei è più importante di uno smartphone, e aggiunge di amarla, risultando più credibile del chihuahua dai mille fans. Alice sa benissimo che tutto questo non succederà. Sarà più facile che una figura col camice di un reparto di oncologia esca dalle ombre della sua stanza e con ghigno sinistro la inviti a seguirla, per scoprire insieme quanto è profonda la tana del 5G.

di Giovanni Rodini

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