Un Cile instabile tra tensioni e crisi sociale
L’11 settembre è per il Cile un giorno difficile; è l’anniversario del sanguinoso golpe di Pinochet che nel ’73 inaugurò una brutale dittatura; anche quest’anno, il 7 settembre, in migliaia sono scesi in piazza per protestare contro le impunità che, al momento della transizione alla democrazia, furono garantite ai responsabili dei crimini del regime. Ma questa volta a quelle proteste se ne sono sovrapposte molte altre: ad agosto sono stati gli indios Mapuche, confinati entro le riserve sempre più ristrette di Araucaria e minacciati da un vero genocidio culturale; sempre ad agosto erano stati gli studenti ad invocare una riforma universitaria che sia seria e il 4 settembre erano scesi in piazza i sindacati, a chiedere interventi radicali in materia di lavoro.
Il fatto è che il miracolo economico cileno sta subendo un vistoso rallentamento rispetto ai travolgenti ritmi del passato; certo, è il quadro di tutta la regione ad essere fosco, ma l’alto costo dell’energia, il rallentamento degli investimenti minerari e molti altri problemi sono tutti interni. In più, lo squilibrio d’essere un’economia dipendente essenzialmente dal rame, di cui produce un terzo di quanto viene estratto al mondo, aumenta i contraccolpi in un momento in cui la richiesta di materie prime rallenta ed aumenta la concorrenza di altri Paesi, Perù in testa.
L’opposizione di destra accusa Michelle Bachelet, rieletta alla presidenza nel marzo scorso, di non aver messo mano al programma di riforme promesse, ma occorre ricordare il terribile terremoto del 2 aprile e lo spaventoso incendio di Valparaiso del 12–15 dello stesso mese; due eventi disastrosi che hanno messo in ginocchio la Nazione, costringendo a rinviare il pacchetto di riforme in cantiere.
Su questa situazione delicata, in cui s’intrecciano diritti umani, economia e riforme profonde del sistema, è calata l’ombra del terrorismo con la bomba scoppiata l’8 settembre a Esquela Militar, un’affollata stazione del metrò di Santiago: i feriti sono stati 14 ed è stato un miracolo che non ci siano stati morti.
In verità, il terrorismo in Cile c’è dal 2005; da allora gli attentati sono stati quasi 200, dall’inizio dell’anno già 27, in una serie che va accelerando. I responsabili pare provengano da una galassia anarchica di cui le forze di sicurezza “avrebbero” identificato almeno 31 gruppi, anche se tecniche e “mano” sembrano quasi sempre le stesse. La novità è, però, che mentre prima gli obiettivi erano banche, caserme, chiese, ora vengono scelti per gli attacchi luoghi affollati per seminare il terrore e fare sangue.
Inquirenti ed investigatori sono accusati di brancolare nel buio, perché da quando sono cominciati sono stati condannati solo due soggetti e un terzo è stato identificato perché morto nell’esplosione. Bachelet ha detto che avrebbe affrontato il problema fino in fondo, ma l’ostacolo principale è la legge anti terrorismo che risale al regime di Pinochet; i giudici stessi preferiscono non applicarla, aggiungendo all’inefficienza più o meno motivata un vuoto normativo pieno di ambiguità. Il Governo intende riformarla quella legge, ampliando i normali poteri investigativi e alleggerendo le durissime sanzioni, in modo che i Tribunali possano ragionevolmente applicarla.
Ma non potrà essere questa la carta vincente che dia pace alla società cilena: senza riforme che spazzino le ultime eredità della dittatura scellerata; senza provvedimenti che diano giustizia agli indios Mapuche; senza interventi sul mercato del lavoro e nel comparto dell’istruzione; senza un riordino delle attività economiche, che cessino di basarsi solo sul rame e limitino lo strapotere dei colossi del settore, il Cile continuerà a reggersi su un precario equilibrio che gli impedirà di cancellare le troppe ombre del passato e di raggiungere una solida stabilità.