Turchia, un colpo di Stato che rimette tutto in gioco
di Salvo Ardizzone
Il fallito colpo di Stato in Turchia, è stato il tentativo di una parte minoritaria dell’Esercito di riprendere la perduta influenza sulla società turca prima d’essere definitivamente spazzata via. Un tentativo, beninteso, visto con estrema benevolenza in tutte le capitali della Nato, che hanno atteso in silenzio fino a quando il golpe è fallito, salvo dare una solidarietà di facciata a cose fatte.
Questa pagina sanguinosa (i morti sono al momento quasi 300 ed i feriti sarebbero oltre 1400) è l’epilogo dello scontro fra le due principali componenti della società turca: quella confessionale, popolare, intimamente asiatica della Turchia profonda, affascinata da Erdogan e dai suoi sogni di gloria neo ottomana, e quella laica, kemalista, rivolta all’Occidente, sempre più messa nell’angolo e soffocata.
In Turchia l’Esercito è stato da sempre il garante dello spirito laico e modernista con cui Kemal Ataturk ha forgiato la Turchia moderna, ma da 13 anni esso e la Magistratura, altro antico pilastro dello Stato, sono stati oggetto di una continua erosione di ruoli e funzioni fatta di epurazioni e leggi che ne hanno minato il potere.
Il malumore crescente delle due Istituzioni è stato intercettato da Fethullah Gulem, antico alleato di Erdogan ma da anni suo mortale nemico ora in esilio in Pennsylvania, che l’ha coagulata in una rete divenuta l’ossessione del Presidente turco e motivazione di continue purghe e procedimenti giudiziari.
A breve è previsto l’inizio del più grande processo mai celebrato contro l’organizzazione di Gulem, e il golpe può essere letto come la risposta di chi si è visto messo con le spalle al muro. Ma è giunto fuori tempo massimo, quando ormai troppe e troppo profonde sono state le epurazioni, e troppi i militari che pensano sia ormai tardi. Ma liquidare tutto a un semplice azzardo con cui un gruppo di ufficiali si sono illusi di prendere il potere con i carri armati, credendo che il Popolo turco – e soprattutto il grosso delle Forze Armate – li avrebbe seguiti è riduttivo.
Al di là delle apparenze la Turchia è un Paese fragile, spezzato in tre parti sempre più distanti: una maggioranza che si affida a Erdogan, sedotta dalle sue parole di tribuno che sa parlare alla sua pancia; una parte che non sopporta la deriva autoritaria di un regime sempre più violento, le leggi liberticide, i media imbavagliati, la Magistratura totalmente sottomessa; infine i curdi, con il sud est del paese ormai fuori controllo preda di una guerra interna che lo mette a ferro e fuoco.
Ma la Turchia è anche un Paese isolato; la politica estera di Erdogan ha collezionato una spettacolare serie di fallimenti, l’elenco è lungo quanto pesante: l’impegno per smembrare la Siria, fino al 2010 suo migliore alleato, è stato all’origine dei suoi errori peggiori come l’aiuto aperto ai gruppi terroristici (vedi i qaedisti di Al-Nusra e i Daesh del “califfo”), la ripresa della guerra contro i curdi (con cui c’era stata una tregua e un significativo riavvicinamento) per il terrore di un’entità curda lungo i confini siriani; l’irragionevole e subitanea crisi con la Russia, con cui aveva enormi convergenze d’interessi, per il suo intervento in Medio Oriente che ha scompaginato i suoi progetti d’espansione; e ancora, gli attriti con l’Iran e le crescenti tensioni con gli Usa, che proprio sui curdi stanno puntando in Siria.
Anche con la Ue, un tempo corteggiata per entrarvi, ha improntato i rapporti sul ricatto esercitato con sfrontato cinismo: ha minacciato di sommergerla con la marea dei profughi che lui stesso ha per primo causato fomentando la guerra in Siria, salvo accordarsi dinanzi a una montagna di denaro e concessioni politiche rivoltanti.
Ma, salvo il ricatto all’Europa, non una delle sue iniziative ha avuto successo e, proprio per questo, con una sua tipica piroetta ha ristabilito rapporti con la Russia ed è giunto ad accettare la permanenza di Assad durante un cosiddetto “periodo di transizione”, semplice anatema fino a poche settimane fa. La stessa ricucitura delle relazioni con Israele (nei fatti mai interrotte, ma ufficialmente troncate), per lui che avrebbe voluto accreditarsi come campione dell’islamismo mediorientale, risponde allo stesso bisogno di avere sponde per non affondare.
Per questo, mentre i militari golpisti parevano aver successo ed Erdogan volava mendicando un asilo, erano in tanti a festeggiare; in tanti che “forse” sapevano già del colpo di Stato e ne aspettavano il risultato. Difficilmente si spiegherebbero altrimenti i rifiuti collezionati dall’aereo che lo trasportava in cerca di un aeroporto che l’accogliesse: al no di Berlino s’è aggiunto quello di Londra e si sussurra anche quello di Roma (a chi smentisce quest’ultimo, ricordiamo che Gentiloni, unico ministro degli Esteri a parlare nei primi momenti della crisi, ha singolarmente definito il colpo di Stato come “l’iniziativa dei militari”).
E strano pure è il lungo silenzio delle Cancellerie alle notizie che giungevano dalla Turchia, un silenzio rotto solo quando si è saputo del fallimento del colpo di Stato. D’altronde, è assolutamente impensabile che i generali turchi si siano mossi senza il benestare della Nato e soprattutto di Washington con cui hanno storicamente strettissimi legami, e, vedi caso, proprio l’8 e il 9 luglio c’è stato il Vertice di Varsavia. Una coincidenza?
I fatti hanno dimostrato come un’illusione che il golpe potesse riuscire: hanno partecipato solo alcuni reparti, quelli controllati dai superstiti delle continue epurazioni; inoltre, e questo ha fatto la differenza, i seguaci di Erdogan, che sono tanti, assai più di quanto un Occidente che presta orecchio solo ai blogger possa immaginare, sono scesi per le strade a fronteggiare i carri armati, anche quando i soldati disorientati dalla folla hanno preso a sparare.
Certo che questa dimostrazione di partecipazione popolare stride con il comportamento del Presidente, fuggito (alcuni dicono lasciato fuggire dai golpisti per non avere l’imbarazzo di gestirlo, come l’ha avuto, sia pur in ben diverse circostanze, Al-Sisi nei confronti del destituito Mohamed Morsi) su un aereo, in affannosa ricerca di un asilo negato, che solo alla fine sembrava assicurato dal Qatar.
E stridono ancor di più quelle chiamate via smartphone fatte alla Tv di Stato, ovviamente allineata al regime, con cui ha incitato il “suo” Popolo a scendere nelle strade: stridono perché mandava i suoi verso i carri armati e un possibile massacro (i morti ci sono stati, eccome) e stridono ancor di più se si pensa che proprio lui è stato un acerrimo nemico dei social e delle mobilitazioni popolari attraverso di essi; sentirlo incitare all’azione per la democrazia, lui che ne è stato il macellaio, fa ridere amaro.
Comunque sia, se il golpe fosse riuscito, avremmo avuto una Turchia schiacciata su una politica dettata dal Dipartimento di Stato, con tutto ciò che ne sarebbe seguito in termini di peso degli Usa nell’area, è invece? Ciò che accadrà si può solo immaginare. Con disgusto.
Erdogan ne esce enormemente rafforzato all’interno ed ha la perfetta occasione per spazzare via ogni dissenso, per regolare nel modo più brutale i suoi conti, e lo farà. Sono circa 3mila i militari già arrestati ed altri lo saranno, mentre 2745 giudici in tutto il Paese sono stati sollevati dall’incarico perché sospettati d’aver rapporti con la rete di Gulem. Ha già gridato che le punizioni saranno durissime e, perché sia chiaro sino a che punto, è sua intenzione ripristinare la pena di morte: si prospetta un periodo di terrore.
Quando il golpe pareva aver successo, Erdogan ha dichiarato che dietro c’erano gli Stati Uniti e la Ue; difficile pensare che tutto continui come prima e che sia possibile trovare un accomodamento con Washington sui curdi, che li vede ormai come le uniche pedine che la tengano in gioco nello scacchiere. Più facile un ulteriore avvicinamento con Mosca, fin dall’inizio apparsa estranea alla vicenda, e che farebbe carte false per legare a sé Ankara, rompendo il fronte della Nato e di chi la vorrebbe emarginare.
D’altronde, per Erdogan è ormai imperativo limitare i danni e pur di evitare la creazione di un’entità curda sui suoi confini (un incubo per lui) ha già sposato la linea del Cremlino di tutelare l’integrità dello Stato siriano. Sarebbe l’ennesima capriola del “sultano”, ma tant’è.
Inoltre, sarà da vedere come reggeranno i sedicenti accordi sui profughi con Bruxelles patrocinati da Berlino, e non ci sarebbe da stupirsi da un nuovo brutale ricatto a un’Europa inetta quanto inconsistente.
Un’ultima notazione a questa vicenda: con un copione infinitamente riproposto, e un’incredibile mancanza di senso della Storia, Washington ha tentato di affidare la soluzione dei suoi problemi a un colpo di Stato come se fossimo ancora negli anni ’70; il risultato è stato, oltre a un bagno di sangue, di rendere più saldo un tiranno.
Ciò che accadrà è difficile dire perché il personaggio non obbedisce a logiche, ma, come detto più volte, la Storia s’è messa in movimento e le manovre di chi vuole condizionarla possono solo essere travolte.