Tunisia, nuove proteste contro il sistema politico
Il 17 dicembre la Tunisia ha celebrato l’ottavo anniversario di quella rivoluzione che avrebbe ispirato anche in altri Paesi le cosiddette “Primavere arabe”. Il 17 dicembre del 2010, infatti, il venditore ambulante Mohamed Bouazizi si diede fuoco per protesta, facendo divampare con il suo gesto la rivolta in tutto il Paese, con una sommossa popolare di dimensioni così ampie che costrinse alla fuga un mese dopo l’allora presidente Ben Ali.
Ma ad otto anni esatti da quei convulsi giorni rimangono ancora disattese molte delle speranze dei giovani tunisini per un avvenire migliore, in particolare per quel che riguarda l’occupazione e la dignità nelle regioni più povere. Proprio da questo malessere, mai sopito, e dall’accresciuta distanza tra mondo politico e gente della strada traggono spunto le rivendicazioni di sindacati e partiti di sinistra per migliori condizioni di vita e dei vari movimenti di protesta che da dicembre stanno nascendo in Tunisia, primo tra tutti quello dei cosiddetti “gilet rossi”, sulla falsariga di quelli gialli francesi. Il movimento per ora solo virtuale, pacifico e aperto a tutti rivendica per i giovani “dignità e diritto ad una vita degna”, mentre le unità di sicurezza tunisine sequestrano in un magazzino al centro della città di Sfax oltre 50mila gilet rossi.
Secondo molti analisti i gilet rossi tunisini però non incarnerebbero né lo spirito né la realtà di quelli francesi, ma cercherebbero soltanto di alimentare il caos stabilito da alcuni, dimenticando lo slogan spesso ascoltato da queste parti, “la nazione prima dei partiti”. A questo concetto fa spesso riferimento anche il segretario generale del partito laico Machrou Tounes, Mohsen Marzouk, il quale afferma che “la situazione nel Paese è critica e richiede che i partiti al governo adottino le misure necessarie per uscire dall’attuale crisi e proteggere il processo di transizione democratica dando la precedenza all’interesse supremo del Paese”. Pur ribadendo che il diritto dei tunisini di scendere in strada è riconosciuto dalla Costituzione, Marzouk ha affermato che vanno trovate al più presto soluzioni alla difficile situazione in cui si trova il Paese e parlando dei gilet rossi, ha dichiarato che si tratta di un regolamento di conti tra partiti politici che non ha nulla a che fare con il movimento dei gilet gialli francesi.
Tunisia, una polveriera pronta a esplodere
La situazione sociale in Tunisia rimane comunque sempre più tesa, dopo gli obiettivi mancati della rivoluzione del 2011, con una serie di proteste. Gli insegnanti sono scesi in piazza a protestare per migliori condizioni economiche e altre categorie tra le quai avvocati e commercialisti contro alcuni articoli della finanziaria 2019. Proteste e scontri in Tunisia contro il carovita e la marginalizzazione delle regioni dell’interno del Paese. Cinque arresti a Tebourba (governatorato de la Manouba) e 13 fermi a Kasserine, dove i dimostranti hanno lanciato pietre e bottiglie molotov contro la sede del distretto di polizia locale e costretto le forze dell’ordine ad usare gas lacrimogeni per disperdere i facinorosi. Tra gli slogan i manifestanti hanno urlato “basta” e “il popolo vuole la caduta del regime”. La situazione sociale tesa, specie nelle regioni marginalizzate, dove il tasso di disoccupazione giovanile tocca punte del 30per cento, qui si sono verificati disordini notturni tra giovani manifestanti e unità della Guardia nazionale in particolare in differenti città della Tunisia (Thala, Oued Borji, Foussa, Fouchana, Bouderies e Kairouan-sud), per i quali le forze dell’ordine sono state costrette ad usare gas lacrimogeni per disperdere i manifestanti.
Intanto il sindacato nazionale dei giornalisti tunisini (Snjt) ha revocato lo sciopero generale della categoria annunciato per il 14 gennaio 2019; lo sciopero era stato annunciato a fine dicembre in seguito alla notizia della morte di un giovane reporter precario datosi fuoco per protesta a Kasserine alla vigilia di Natale.
Anche le famiglie dei martiri e dei feriti della “Rivoluzione del gelsomino”, che attendono ancora dalle autorità la pubblicazione della lista definitiva delle vittime, dopo anni di rimostranze inutili, sono scese in piazza a criticare il governo per il ritardo eccessivo nel trattamento di questa delicata questione. Il governo, dal canto suo, in prossimità dell’ottavo anniversario della Rivoluzione, il 14 gennaio che ha segnato la cacciata del presidente Ben Alì, con ogni probabilità pubblicherà l’elenco, considerato che in questa data viene inaugurata al Museo del Bardo di Tunisi la mostra “Before the Fourteenth: Tunisian Instant” con l’obiettivo di consegnare ai posteri e perpetuare la memoria di quei giorni che hanno cambiato il corso e la storia del Paese.
Sta di fatto che l’83 per cento dei tunisini ritiene che il Paese stia andando in una cattiva direzione, secondo un sondaggio realizzato a fine 2017. I tunisini respingono il sistema politico del loro Paese, come hanno dimostrato le elezioni del 6 maggio 2018 quando i tunisini sono stati chiamati a eleggere i consigli municipali. Solo il 33 per cento degli aventi dritto ha votato, privando così gli eletti di legittimità democratica. Pare che soprattutto i giovani abbiano disertato in massa le urne.
Le prossime elezioni del 2019, presidenziali e legislative, rappresentano una battaglia politica di grande importanza, secondo Hamma Hammami, il segretario generale del Partito dei Lavoratori, nonché portavoce del Fronte Popolare, una coalizione di vari partiti di sinistra e nazionalisti che ha attualmente 15 dei 217 seggi in Parlamento. Hammami ha lanciato un appello a “tutte le forze politiche, sindacali, civili, giovani e donne che si oppongono alla politica del governo di concordare un ordine unificato per salvare il programma di Paese”.
Il 14 gennaio, i tunisini hanno celebrato l’ottavo anniversario della rivoluzione che ha portato alla caduta del regime di Zine El-Abidine Ben Ali. In questa occasione il presidente della Repubblica tunisina, Beji Caid Essebsi, ha deciso di concedere la grazia a 2.160 detenuti, decisione presa dopo un incontro con il ministro della Giustizia, Mohamed Karim Jamoussi.
di Cristina Amoroso