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Piazza Rossa, tra presenti e assenti si delineano i nuovi equilibri mondiali

Piazza Rossa – Sono passati 15 anni da quando, il 7 maggio del 2000, Vladimir Putin ha preso in mano le redini della Russia, succedendo a Boris El’cin. Allora il Paese era sull’orlo del baratro, con un’economia svenduta agli Oligarchi che la facevano da padroni su uno Stato debole sul punto di collassare.

In pochi anni Putin riuscì nell’impresa d’impedire lo sfascio: lasciando perdere irrealistici sogni di ammodernamento complessivo d’un sistema arretrato e fatiscente, puntò sullo sfruttamento delle immense risorse energetiche (petrolio e gas) facendo quella cassa immediata di cui aveva un disperato bisogno. Al contempo, mise in chiaro con gli Oligarchi che, da quel momento, avrebbero potuto continuare a fare affari, ma a comandare sarebbe stato il Cremlino: chi si adeguò fedelmente continuò a prosperare, chi provò a giocare in proprio fu spazzato via.

A quel tempo Putin si rivolse all’Occidente, giungendo a fare passi per entrare nella Comunità Europea: era una soluzione logica integrare un Paese ricchissimo di materie prime con un’area altamente industrializzata e ricca di capitali; anche con gli Usa mostrò la massima apertura, arrivando a offrire la piena collaborazione dopo l’11 settembre.

Ma la logica delle cose si scontrava con il disegno di potere di Washington. Dieci anni prima, alla fine della Guerra Fredda, Gorbacev aveva accettato la riunificazione della Germania a condizioni precise, che l’allora presidente Bush senior s’era affrettato ad accettare fornendo le massime garanzie: con la fine della contrapposizione, la Nato non si sarebbe dovuta espandere ad Est, neanche nei territori della ex Germania Orientale.

Com’è andata lo sappiamo tutti, con la corsa dell’Alleanza Atlantica a inglobare non solo i Paesi dell’ex Patto di Varsavia, ma anche quelli Baltici, che pochi anni prima erano Unione Sovietica. A Washington non bastava aver vinto la Guerra Fredda, intendeva continuare a stravincere, umiliando quella che era stata l’altra superpotenza. A Washington interessava mantenere separati gli Stati europei da Mosca, per impedire che si saldasse un’area di cooperazione da cui sarebbe stata esclusa per forza di cose e, soprattutto, che non si creasse un asse fra Russia e Germania, il motore economico dell’Europa.

Il tradimento dell’Occidente e il crescente risentimento di una Russia che si vedeva umiliata ed emarginata, con basi Nato sempre più vicine e continue provocazioni (vedi l’irresponsabile crisi suscitata dagli Usa in Georgia nel 2008), sono alla radice della linea rossa tracciata dal Cremlino nella vicenda ucraina.

In realtà, neanche tutte le manovre di Washington erano state sufficienti a bloccare un’integrazione fra Russia ed Europa e, in particolare, con la Germania, che era nella logica delle cose; è stato necessario un colpo di Stato, l’instaurazione a Kiev d’un regime pilotato dalla Casa Bianca e poi un crescendo di provocazioni per far precipitare gli eventi: le masochistiche sanzioni di un’Europa succube degli Usa fino all’autolesionismo, la distruzione d’un patrimonio di relazioni, scambi e collaborazioni costruito nei decenni e soprattutto il ritorno dell’eterno nemico ad Est, che desse una rinnovata motivazione alla Nato (che l’aveva persa da tempo) e al dominio politico (e non solo) Usa sul Continente.

Il 9 maggio, a Mosca, sulla Piazza Rossa, si è celebrata la vittoria sul nazismo, costata alla Russia 27 milioni di morti oltre a sofferenze e distruzioni immense. È un evento a cui il Popolo russo è legatissimo, perché celebra quella che è chiamata la Grande Guerra Patriottica, la prova più dura a cui è stato sottoposto. Era il 70° anniversario e Putin ha voluto una parata imponente che mostrasse al mondo la ritrovata potenza della Russia, malgrado la guerra diplomatica ed economica scatenata dagli Usa e dai Sauditi.

Nel discorso che ha tenuto, ha denunciato i tentativi di creazione d’un mondo unipolare, che obbedisse a un unico centro di potere (Washington) e ha continuato dichiarando che i principi base della cooperazione internazionale sono stati ignorati sempre più spesso: il minimo dopo tanti attacchi.

Dieci anni fa, per il 60° anniversario, erano in 53 i capi di Stato e di Governo presenti, con gli europei in prima fila; quest’anno, dei 68 leader invitati, erano solo una trentina ad esserci, e degli europei c’erano solo Tsipras e il presidente cipriota Anastasiades.

Con una notevole dose d’ipocrita vigliaccheria, il ministro degli Esteri Gentiloni e il suo omologo francese Fabius si sono limitati a deporre una corona di fiori al monumento al milite ignoto, tenendosi alla larga dalla sfilata, mentre domenica, a cerimonia avvenuta, sarà la Merkel ad arrivare. Assenze che rappresentano un ennesimo schiaffo per il Popolo russo.

Sul palco c’erano il presidente cinese Xi Jinping e indiano Modi, Raul Castro ed altri; nei fatti, fra presenze e assenze, si sono disegnati due blocchi: da un canto gli Usa e i suoi satelliti, dall’altro tutti coloro che non intendono assoggettarsi a quella sudditanza, in nome di interessi nazionali propri. Appunto, quelli che l’Europa e l’Italia per prima non riescono ad avere, prone come sono agli interessi dello Zio Sam.

di Salvo Ardizzone

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