Tra ladri e “Lupi” ci sta un popolo di pecore
La storia dell’immondo verminaio scoperchiato dalla procura di Firenze è presto raccontata: l’ingegnere Ercole Incalza da circa trent’anni era il vero padrone del Ministero dei Lavori Pubblici (ora delle Infrastrutture); con un suo sodale, Stefano Perotti, ha pilotato gli appalti delle grandi opere italiane: cantieri dell’Expo, della Salerno–Reggio Calabria, dell’Alta Velocità, della Metro a Milano e a Roma e così via in una lunghissima lista. Fra quelli sotto gli occhi degli inquirenti, si calcola che abbia “aggiustato” appalti per almeno 25 Mld.
Il meccanismo era semplice: grazie al suo potere incontrastato al Ministero, aggiudicava gli appalti agli “amici” che in cambio affidavano al Perotti (o suoi prestanome) la direzione dei lavori, determinando compensi stratosferici per tutti grazie alle varianti in corso d’opera (prontamente accettate dal Ministero, cioè da Incalza) che facevano lievitare i costi anche del 40%. Così erano sicuri tutti: sia le ditte, che facevano fuori la concorrenza e si assicuravano guadagni spettacolari, che il direttore dei lavori, che guadagnava alla grande; a sistemare le cose al Ministero pensava Incalza, che là comandava più dei Ministri.
Attorno a questo sistema banchettavano tutti, ma proprio tutti: politici, imprenditori e faccendieri, tanto i Governi passavano ma Incalza, e il suo sistema, era sempre lì. Il giro dei nomi rilevato dalle carte e dalle intercettazioni in fondo è sempre lo stesso, di gente sempre lambita dalle inchieste e mai inchiodata, grazie agli ottimi avvocati e a un sistema giudiziario e normativo fatti apposta per incastrare i disgraziati e lasciar indenni i potenti.
E potenti lo erano in quel mondo dai labili confini fra politici, imprenditori e altissimi funzionari, assai più dei Ministri, semplici marionette nelle loro mani che manovravano capitali enormi e appalti.
L’ultimo della serie, Maurizio Lupi, era talmente assoggettato da essersi fatto scrivere la risposta alle recenti interrogazioni parlamentari su Incalza (già lambito infinite volte da altre inchieste) dal suo difensore, l’avvocato Titta Madia. A dicembre è giunto a minacciare di far saltare il Governo se la Struttura tecnica di missione (l’ufficio dominato da Incalza) fosse stato trasferito alle dipendenze della Presidenza del Consiglio dei Ministri, fuori dalla sua ombra protettiva.
Lascia il fiele in bocca la figura di un Ministro che si fa pagare gli abiti di sartoria, trova normale “sistemare” il figlio neolaureato presso gli “amici” e accetta tranquillamente rolex d’oro come regalini, mentre alle sue spalle si spartiscono torte miliardarie.
È l’ennesima riprova che in questa Italia irredimibile, una classe politica inetta e inconcludente, burattini nelle mani di chi sa manovrare dietro le quinte, è pronta a vendersi a qualunque prezzo. È l’ennesima prova che, in questo Paese, chi comanda è una cupola di mandarini inamovibili, collegati da un reticolo di legami e complicità, che tutto possono a dispetto di leggi e regolamenti, sistematicamente piegati ai loro interessi.
Fin quando la classe politica avrà una preparazione infima e nessuna selezione, anche con le migliori intenzioni (che francamente non vediamo da nessuna parte), sarà sempre in balia dei mandarini che imporranno le loro regole del gioco.