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Tortura, i giochi politici dietro la legge capestro

Sul reato di tortura si è tanto discusso, il più delle volte senza arrivare ad una seria conclusione. Il disegno di legge Manconi è la classica leggina all’italiana, all’acqua di rose, che non nuoce a nessuno e che, forse, lascia tutti soddisfatti, politicanti e forze dell’ordine in primis.

E’ di questi giorni la notizia che, a Massa Carrara, sono stati arrestati quattro carabinieri per falso e lesioni su inermi cittadini. Le misure cautelari, in tutto, sono otto: lesioni, falso, abuso d’ufficio, sequestro di persona, violenza sessuale, rifiuto di denuncia, possesso d’armi. Sono ben 104 i capi di imputazione contestati dalla Procura di Massa Carrara a una trentina di carabinieri in servizio nelle caserme di Aula.

Leggendo di certi casi bisognerebbe chiedersi perchè, i politicanti italiani, abbiano sempre e del tutto escluso il copiare di pari passo la definizione di tortura che è stata sottoscritta dal nostro paese; prima nel 1984 sotto il governo Craxi e poi ratificata nel 1988 sotto il governo De Mita.
Ad un’attenta analisi si può pensare che, la paura principale sia stata ed è quella di voler punire le forze dell’ordine. Non a caso, i tavoli di trattativa che si sono aperti prima del Ddl Manconi, si sono aperti con gli apparati di polizia e non tra le forze politiche.

Quello che ne è uscito è stato un Ddl che lo stesso relatore ha definito del tutto inadatto alle esigenze di salvaguardia dei diritti della popolazione. Non è una novità che i vertici delle forze dell’ordine si siano sempre opposti all’inserimento del reato di tortura nel nostro ordinamento. Spaventato da ciò, il governo ha concesso e riconosciuto agli apparati delle forze dell’ordine un irrituale diritto di veto. Il tutto preconizzando un deficit di autorità democratica della politica e del parlamento.

La conseguenza di questa paura è che le forze dell’ordine in Italia praticano di sovente la tortura, soprattutto all’interno di caserme, carceri e manicomi. Le attività che dovrebbero prevenire tali azioni sono del tutto assenti; il potere immenso, l’impunità di cui godono gli apparati di polizia, la dinamica autoreferenziale tale da lambire l’omertà, ostacolano e bloccano qualsiasi azione.

A far aprire gli occhi ci sono stati i famosi fatti di Genova nel 2001. Successivamente ai fatti della Scuola Diaz e di Bolzaneto, sono arrivate le clamorose condanne e successivamente anche la sentenza della Corte europea sui diritti umani che, nel 2015, ha chiesto all’Italia di mettere in atto una seria azione legislativa contro la tortura.

La Corte ha indicato tre provvedimenti essenziali: una legge sulla tortura; i codici di riconoscimento sulle divise degli agenti; la sospensione o la rimozione, a seconda dei casi, degli agenti colpevoli di abusi. Di codici e rimozioni al momento nemmeno si parla (se non per la burlesca ipotesi dei “codici di reparto” promessi dal ministro Minniti), mentre la norma uscita dal Senato è frutto dell’ultima mediazione possibile: approvare un testo che abbia l’etichetta di “legge contro la tortura”, ma non la sostanza. Una legge feticcio.

Amnesty International, esaminando i casi di tortura conosciuti ha affermato che vi sono oltre venti modi di praticare la tortura; questi sfuggirebbero al giudizio dei tribunali italiani, per come è impostata la legge.
Il governo potrebbe cambiare strada, lo potrebbe fare in tempi brevi. Avrebbe il plauso di tutti gli esperti e, se non fossimo in Italia, avrebbe anche il plauso delle forze dell’ordine che, invece di chiedere coperture ed omissioni, potrebbero mettere alla porta chi infanga la divisa e l’operato degli agenti onesti. Vi è davvero questa reale volontà?

di Sebastiano Lo Monaco

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