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Terre rare, il nuovo asse strategico tra Mosca e Pechino

di Salvo Ardizzone

Quando si pensa a materiali strategici, vitali per l’economia delle Nazioni, la mente corre al petrolio e al gas; ma accanto a loro ce ne sono altri, assai meno conosciuti ma, su molti aspetti, altrettanto vitali: le terre rare. Si tratta di 17 elementi: ittrio, scandio e i 15 della famiglia dei lantanidi, perciò li chiamano 15+2; semplificando al massimo, hanno la capacità di mantenere il magnetismo anche ad altissime temperature, per questo sono indispensabili non solo alla produzione di oggetti tecnologici diffusissimi come hard disk e cellulari, ma anche di laser, satelliti, radar e molti altri d’interesse militare. In realtà non sono così rari, le riserve mondiali conosciute, pur raddoppiando i consumi previsti per il futuro, basterebbero per oltre 400 anni; il fatto è che non è facile estrarli, che non si trovano tutti insieme e che raffinarli non è affatto semplice. 

La Cina è il Paese che ha le maggiori riserve (circa il 40%) e da sempre ha sviluppato ricerca dei siti e della tecnologia per l’estrazione; così ha eliminato la concorrenza giungendo, nel 2002, a fornire il 95% della produzione mondiale: un monopolio totale quanto strategico. Ma all’improvviso, nel 2009, ha adottato un drastico taglio delle esportazioni, ulteriormente ridotte nei due anni successivi e stabilizzate solo nel 2012; la mossa ha provocato un terremoto, coi prezzi schizzati alle stelle, speculazioni incredibili e le economie mondiali a provarle tutte per trovare nuovi canali e soluzioni tecnologiche per ridurre i consumi. 

Ma sempre nel 2012, tuttavia, i prezzi dei 15+2 sono improvvisamente crollati almeno del 60% senza che si fossero trovati nuovi fornitori: da un canto la crisi aveva diminuito la domanda, ma dall’altro s’era sgonfiata la speculazione internazionale che negli anni era montata sulle terre rare e che la Cina ha così schiantato. Certo, rimaneva e rimane ancora un altro fattore: il contrabbando; stimolate dal business, nel meridione del Paese sono state aperte un’infinità di cave clandestine gestite in condizioni incredibili (e con mostruosi danni ambientali irreversibili) da Triadi e pezzi grossi dell’amministrazione e del partito. Secondo stime attendibili dell’agenzia Xinhua, da lì viene contrabbandato almeno un terzo delle esportazioni complessive. Tuttavia, questo flusso non è destinato a rimanere indisturbato; nella drastica lotta alla corruzione del Presidente Xi Jinping, il problema del controllo sulle forniture delle terre rare non è affatto estraneo. È un tema troppo importante perché Pechino chiuda gli occhi su di esso, lasciando che interferisca sulle sue strategie.

Resta così aperto il problema della stretta sul flusso di materiali così importanti; l’unica alternativa possibile sarebbe la Russia; già, Mosca detiene il 20% delle riserve mondiali, e di recente ha scoperto nuovi ottimi giacimenti a Murmansk e nella penisola di Kola. Avrebbe tutto l’interesse a sviluppare una simile industria estrattiva, che, accanto agli idrocarburi, le darebbe un ulteriore enorme potere contrattuale sull’economia mondiale, ma non ne ha il know-how, la tecnologia, gli impianti di raffinazione e, al momento, con i problemi conseguenti alla crisi ucraina, le difettano pure le risorse. I tentativi che ha già fatto in Jacuzia, registrano incresciosi ritardi nella realizzazione e, d’altronde, nella posizione di outsider, avrebbe tutto da perdere a voler fare la concorrenza a Pechino.

La soluzione sarebbe un cartello fra le due Nazioni che, insieme, detengono almeno il 60% delle riserve; converrebbe a entrambi: la Russia avrebbe la tecnologia che le manca e la Cina s’accorderebbe con l’unico concorrente potenziale, insieme costituirebbero un cartello che nessuno potrebbe insidiare. Inoltre, i giacimenti non sono così distanti da quella Via della Seta, da decenni vagheggiata da Pechino, che porta in Europa; la disponibilità, praticamente esclusiva, dei 15+2 schiuderebbe la possibilità dell’aggancio diretto alla Germania, sganciandola dal treno americano.

Già nel 2011 Berlino aveva cercato accordi in Mongolia per le terre rare; ora, con la crisi dei rapporti in atto con Washington, l’operazione potrebbe essere assai più semplice, coronando un progetto d’intesa a tre, che in fondo è nella coincidenza d’interessi, è nelle cose. E l’accordo di Shanghai sul gas, il maxi contratto fra Russia e Cina, potrebbe essere il modello da cui cominciare.

Ma di tutto questo c’è un aspetto che abbiamo lasciato per ultimo, forse il più importante e quello che più d’ogni altro ha spinto Pechino a contingentare le esportazioni e controllare il flusso delle esportazioni: quello militare. 

Le terre rare sono indispensabili alla produzione di armi ad energia diretta: si tratta di sistemi assolutamente innovativi che, invece di centrare un bersaglio con un proiettile, lo investono con radiazioni elettromagnetiche, raggi laser o plasma ad energia elevatissima. Sono armi di potenza, precisione e rapidità d’ingaggio del bersaglio infinitamente maggiori, con un costo di gestione assai più contenuto di quelle convenzionali e una duttilità operativa pressoché illimitata; darebbero a chi le possedesse un incalcolabile vantaggio sugli altri. Gli Stati Uniti sono all’avanguardia nello sviluppo di questi sistemi, ma già da alcuni anni i progetti accusano vistosi ritardi, dovuti alla difficoltà di superare questa dipendenza d’approvvigionamento, ovviamente giudicata improponibile. Inoltre, il Dipartimento della Difesa Usa ha varato un programma di analisi sull’incidenza dei 15+2 sui 24 più importanti sistemi d’arma adottati, e per Washington le conclusioni sono state sconfortanti.  

Nel frattempo, anche Cina e Russia stanno lavorando a quelle tecnologie, con ben diversi problemi sul reperimento dei materiali, accorciando le distanze col Pentagono. Se questo potrebbe essere il motivo principale alla base della drastica riduzione delle esportazioni di terre rare, potrebbe pure essere, accanto a quello energetico, un secondo legame strategico in gestazione fra Pechino e Mosca.

Il mondo è finalmente in rapido movimento, sarebbe ora che i Paesi europei lo comprendano, affrancandosi da tutele e servaggi asfissianti che non tengono in minimo conto i loro reali interessi; la Germania pare l’abbia già inteso e, come al solito, già si sta muovendo per conto proprio. Che aspettano gli altri?    

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