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Pandemic bond ai tempi del Covid-19

“Un nuovo virus che si diffonde in tutto il mondo e contro il quale la maggioranza degli uomini non ha difese immunitarie”, sono le parole usate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), per dichiarare pandemia da virus. Ora che i contagi si sono diffusi in ogni continente scatteranno le clausole su 320milioni di dollari dei “Pandemic bond“, emessi nel 2017 dalla Banca Mondiale?

Che cosa sono i Pandemic bond?

Nel 2017, la Banca mondiale ha emesso due bond per un totale di 320 milioni di dollari, con scadenza 15 luglio 2020. Questi titoli pagano lauti cedoloni, ma in contropartita hanno delle condizioni. Se prima della scadenza di metà 2020 scoppiano delle pandemie, i detentori dei bond (banche e gestori) si vedranno rimborsare solo una parte del capitale, o nemmeno quella.

Per gli investitori che hanno sottoscritto i titoli si profila quindi la perdita del capitale, che sarà utilizzato per finanziare la lotta contro il virus nei Paesi più poveri. Per capire quando e se questo effettivamente avverrà bisogna attendere in primo luogo la data del 24 marzo, quando terminerà il periodo di 12 settimane dalla dichiarazione di avvio dell’epidemia di coronavirus (fissato dall’Oms al 31 dicembre 2019), che ha già superato i criteri richiesti in termini di diffusione e mortalità. A quel punto si potrà valutare se anche tutti gli altri criteri siano stati raggiunti, tra cui, come sottolinea Euromoney, il tasso di crescita dei contagi e il rapporto tra casi confermati e casi totali (inclusi i sospetti). Verifica che potrebbe durare un altro paio di settimane. La scadenza naturale dei bond è fissata a metà luglio.

Pandemic bond nel fondo della Banca Mondiale 

I bond emessi dalla Banca Mondiale sono di due tipi. Il primo, da 225 milioni di dollari è legato solo alle pandemie di influenza o coronavirus, e  per far scattare il taglio al rimborso serve, tra le altre cose, che ci siano almeno 2.500 vittime in un Paese (più almeno 20 in un altro). Il secondo bond, per 95 milioni di euro, è legato a una gamma più ampia di casistiche (Ebola, ecc.) e il taglio ai rimborsi (almeno in parte) scatta già quando le vittime sono 250. Il primo bond, meno “rischioso” per chi ci investe, paga un tasso pari al tasso del 7,5 per cento, il secondo un tasso del 12,1 per cento.

Il Pef (Pandemic Emergy Financing Facility) è il fondo della Banca Mondiale che fornisce aiuti ai Paesi colpiti da epidemie. Il fondo ha due modi per raccogliere soldi: uno “assicurativo”, quello legato ai bond appena descritti, e l’altro “per cassa”, alimentato dai contributi di Paesi ricchi o di organismi come l’Oms. In altre parole, doveva essere una sorta di “assicurazione” stipulata dalla World Bank. Ogni anno, la Banca Mondiale paga il costo della polizza (gli interessi sui bond). In cambio, se scoppia un’emergenza, a pagarne il costo non sarà più la banca, ma il “ricco” settore finanziario che ha in mano i titoli.

Ma, come spesso accade, il diavolo è nei dettagli. Nel caso di questi bond, i dettagli sono le clausole che fanno scattare il “diritto” della Banca Mondiale a non restituire il capitale ai detentori delle obbligazioni. Il primo passo, certo, è l’attestazione della pandemia.

Sulla pelle degli ultimi

Un esempio su tutti: nel 2018 una nuova emergenza Ebola ha causato più di duemila vittime nella Repubblica Democratica del Congo, ma dato che non ci sono state almeno venti vittime in un secondo Paese i pandemic bond non hanno pagato un quattrino. Certo, al Paese africano sono comunque arrivati degli aiuti dal Pef, ma quanto ha ricevuto è stato meno degli interessi incassati dalle banche sui bond.

Con le condizioni attuali dell’emergenza coronavirus, ora che la pandemia è stata dichiarata, le altre condizioni potrebbero per la prima volta essere tutte raggiunte. Questo non farebbe piacere alle banche perché rischierebbero di perdere decine o centinaia di milioni di dollari. Non farebbe piacere neppure alla Banca Mondiale che vedrebbe fallito il primo tentativo di “assicurarsi” contro le pandemie (naturali o artificiali). Se il primo tentativo finisce con un flop, difficilmente troverà, in futuro, banche disposte ad acquistarne i titoli. Staremo a vedere.

di Cristina Amoroso

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