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Kashmir: ancora venti di guerra fra India e Pakistan

Il Kashmir indiano è in fiamme da mesi; a luglio l’Esercito indiano ha ucciso Burhan Wani, un giovane leader separatista sostenuto strumentalmente da Islamabad per fomentare disordini; l’omicidio, perché di questo si parla, ha innescato violente dimostrazioni popolari represse nel sangue.

KashmirLa brutalità delle forze di sicurezza, e la politica di sopraffazione sulla maggioranza locale musulmana portata avanti da Dehli, ha fornito al Pakistan l’occasione per rivolgersi all’Onu, chiedendo di internazionalizzare la questione del Kashmir. Dietro l’iniziativa di Islamabad, tuttavia, non c’è affatto l’intenzione di tutelare la popolazione vessata dal Governo indiano, quanto di usarla unicamente per legittimare le sue antiche mire sulla regione.

Lo scontro politico e diplomatico fra i due Paesi è continuato a salire fino a quando un gruppo armato ha attaccato a Uri, nel Kashmir indiano, una base dell’Esercito. Le modalità dell’attacco, le armi recuperate dopo lo scontro e i 18 morti che ne sono conseguiti fanno pensare che ad organizzare l’operazione sia stato il Border Action Team, un gruppo costituito da terroristi ed elementi delle forze speciali pakistane, secondo il consueto modus operandi dei militari, che in Pakistan dettano legge da sempre.

Inutile dire che Islamabad abbia negato ogni coinvolgimento, ma dinanzi ai molti (troppi) indizi, il premier indiano Narendra Modi ha giurato pesanti ritorsioni. Ma più che puntare su un’immediata ritorsione militare, Narendra Modi sta mirando a un’offensiva diplomatica per isolare Islamabad, che già di suo si è isolata da sé grazie alla sciagurata politica estera pilotata dai militari.

Per il Pakistan, l’attacco di Uri è stato l’ennesimo, clamoroso, autogol: è avvenuto a pochi giorni dell’atteso discorso all’Onu del premier Sharif, che ha sollevato la questione dei diritti umani nel Kashmir indiano, tentando per l’ennesima volta di internazionalizzare la vicenda; inutile dire, in quel contesto, quale accoglienza possa aver avuto la sua richiesta.

L’India, dal canto suo, non solo ha sollevato la questione del Balucistan, dove il Governo pakistano si comporta anche peggio di Delhi in Kashmir, ma ha inviato la ministra degli Esteri Swaraj a Washington per sollecitare provvedimenti contro gli Stati che sponsorizzano il terrorismo, dopo che deputati del Congresso Usa avevano presentato una mozione per dichiarare il Pakistan sponsor del terrorismo.

Inoltre, è di questi giorni l’intesa, concretizzatasi in margine all’8° Vertice dei Brics, con una Russia interessata anch’essa a isolare il Pakistan, per la sua responsabilità nella destabilizzazione dell’Afghanistan e per il suo sostegno al terrorismo. Infine, per arginare il blocco pakistano delle merci fra India e Afghanistan, non solo c’è stato un incontro fra i due Paesi, con gli Usa a dare ulteriore peso al vertice, ma è stato dato il massimo impulso al megapotenziamento del porto iraniano di Chabahar.

Quel porto creerà un corridoio logistico imponente fra il mare e l’Asia Centrale, fino alla Russia, tagliando fuori i porti pakistani su cui tanto aveva puntato la Cina. Ma nell’attesa, con una mossa a sorpresa, Modi ha deciso di sospendere l’Indus Water Treaty, un’azione senza precedenti che, se messa in atto, metterebbe in ginocchio Islamabad.

L’Indus Water Treaty, dal 1960 regola la gestione dei corsi d’acqua fra i due Paesi; il trattato assegna al Pakistan l’80% delle risorse idriche dell’Indo e dei suoi affluenti, che nascono in territorio indiano: se l’India completasse un megaprogetto di dighe su quei corsi d’acqua, definito una pistola puntata contro Islamabad, per il Kashmir pakistano e per il Punjab sarebbe il disastro.

Messa alle strette, il Pakistan tenta ora di accusare Delhi dell’attacco di Uri, e minaccia di sollecitare Pechino a chiudere il flusso del Brahmaputra che nasce in Cina. Da quel fiume dipende l’economia di vasta parte del nordest indiano e l’equilibrio dell’ecosistema himalayano.

Da queste premesse è chiaro che in Kashmir cova una guerra dagli effetti potenzialmente devastanti, una guerra che ha le sue radici sia nella criminale gestione del potere dei miliari pakistani, divenuta una spaventosa fonte di destabilizzazione per l’area, sia nella politica di Delhi e, in particolare, di Narendra Modi e del suo partito che, per cavalcare il nazionalismo indù, sta conducendo in Kashmir un’azione scellerata, tenendo quella regione sotto occupazione militare, vessando la popolazione musulmana e tentando di alterare gli equilibri etnici con una immigrazione forzata.

Politiche tutte, dall’una e dall’altra parte, che calpestano la gente del Kashmir e la usano strumentalmente per i propri fini, impedendo che un’equilibrata e non strumentale internazionalizzazione della vicenda ponga le premesse per una soluzione.

di Salvo Ardizzone

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