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Iran, potenziale straordinario nei rapporti con Italia

La visita di Matteo Renzi in Iran ha una portata potenziale per gli interessi politici ed economici italiani che pochi hanno colto, con molta probabilità neanche il Premier.

Eppure, a gennaio, la visita di Rohani a Roma è stata un segnale preciso che la dirigenza iraniana ha voluto dare: l’Italia è stata visitata prima di ogni altro Paese europeo per dimostrare una gerarchia nei rapporti di vicinanza agli occhi delle Cancellerie internazionali; i 7 accordi istituzionali e i 10 industriali siglati nell’occasione, che pesano per quasi 18 Mld di euro, sono stati anch’essi un’apertura che travalica il semplice contenuto economico degli stessi.

Il motivo è che l’Italia, a differenza di altri Paesi, non ha un passato di ingerenze politiche da far dimenticare e anche negli anni più bui per la Repubblica Islamica ha mantenuto un rapporto corretto con Teheran. Agli occhi della dirigenza iraniana ciò ha un valore enorme, e chi non lo comprende manca della capacità di interpretare la mentalità di quel Paese.

In poche parole, l’Iran cerca nell’Italia assai più d’un rapporto economico, vuole che Roma divenga la sua porta con l’Europa e l’Occidente attraverso la quale canalizzare la sua apertura. Per questo si tratta di un’occasione straordinaria quanto complessa.

Renzi è stato accolto ai massimi livelli, incontrando sia il presidente Rohani e le massime autorità dello Stato, ma anche la Guida Suprema Ali Khamenei, per far comprendere che l’Iran s’aspetta dall’Italia non solo comprensione ma soprattutto un aiuto concreto sui temi più spinosi, mettendo sul piatto un rapporto speciale dalle enormi potenzialità.

Il problema più difficile che è stato messo sul tavolo dei colloqui è quello dell’implementazione del Jcpoa, gli accordi di Vienna sul nucleare: l’Iran lamenta apertamente che a fronte di un suo impegno reale nel rispettarli, da parte dell’Occidente l’applicazione di essi sia rimasta sulla carta. L’esempio più lampante è offerto dalle grandi banche internazionali che, adducendo pretesti, si rifiutano di lavorare con l’Iran e di assistere le aziende che vogliano farlo, impedendo di fatto l’avvio di grandi programmi commerciali ed industriali.

Dietro quel rifiuto c’è la paura concreta di veder compromessi i propri rapporti con gli Stati Uniti, le cui Istituzioni finanziarie fanno fortissime pressioni per scoraggiarle; l’appiglio formale è dato dalle sanzioni comminate a società e persone coinvolte nel programma missilistico iraniano, unilateralmente giudicato da Washington illegale, per cui qualunque transazione può essere bloccata per il sospetto coinvolgimento di soggetti sanzionati.

D’altronde, lo stesso segretario del Tesoro Usa, Jacob Lew, l’11 aprile scorso ha dichiarato che Washington non consentirà alcun accesso al sistema finanziario statunitense alle pur formalmente possibili operazioni con l’Iran. E se si tiene conto che a tutt’oggi le maggiori transazioni vengono svolte in dollari, come quelle del mercato petrolifero, ci si rende conto degli enormi ostacoli che così vengono posti all’Iran e a chi voglia investirvi.

Un atteggiamento che ha suscitato le ire di Teheran, che denuncia la volontà degli Stati Uniti di non voler rispettare gli accordi di Vienna, collegandoli in maniera pretestuosa e strumentale al programma missilistico iraniano; la stessa Guida Suprema, Khamenei, nel tradizionale discorso di Nowruz (il Capodanno persiano che cade il 21 marzo), ha accusato apertamente Washington di aver rimosso le sanzioni solo sulla carta.

L’Iran si aspetta che Renzi intervenga quanto meno sugli Istituti di Credito italiani, risolvendo la questione che ha impedito a grandi Banche come Unicredit, Intesa Sanpaolo o Mediobanca (i cui vertici erano al seguito del Premier nella sua visita) di operare in Iran, prestando assistenza alle aziende che ne hanno fatto richiesta.

La soluzione, praticabile solo con il pieno appoggio del Governo, sarebbe quella di una indagine delle banche italiane (in gergo tecnico “due diligence”) che appuri il mancato coinvolgimento di soggetti sanzionati dalle autorità Usa nelle operazioni finanziarie, con la contestuale garanzia del Tesoro Usa per accettazione. Un procedimento usato in altri contesti, ma che potrebbe essere avviato solo con il deciso avallo di Roma.

Una simile azione, che smaschererebbe le vere intenzioni di Washington, non solo sbloccherebbe la situazione, mettendo gli Istituti italiani (e i loro clienti) in primo piano sul mercato iraniano, ma indurrebbe la altre grandi banche europee a seguirli per non rimanerne fuori.

Sul piatto ci sono infinite altre possibilità di collaborazione e sviluppo per il Sistema Italia, e l’Eni, a Teheran con il suo Ad Descalzi, è solo una delle strutture interessate a un business potenzialmente enorme.

Per la dirigenza iraniana è della massima importanza risolvere il problema: Rohani ha impegnato la sua credibilità dicendo al Paese che avrebbe raggiunto l’accordo sul nucleare e fatto cessare le sanzioni, e in virtù di questo ha vinto le presidenziali del 2013 e colto un parziale successo alle parlamentari di febbraio; ma gli elettori non gli perdonerebbero se, dopo aver sacrificato il programma nucleare, non riuscisse a portare risultati concreti.

In questo, è stato assai più realistico Ali Khamenei, la Guida, che pur sostenendo il negoziato s’è sempre dimostrato scettico sulle reali volontà degli Stati Uniti ed ha smorzato gli eccessi d’entusiasmo.

Sia come sia, l’Italia ha ora un’occasione storica che, se sfruttata, costituirebbe un enorme volano di sviluppo reciproco e un incalcolabile aumento di peso politico internazionale. Ciò che temiamo, vista la levatura dei “decisori” coinvolti, è che questa irripetibile apertura di credito venga sprecata per la leggerezza, il pressapochismo, l’improvvisazione e soprattutto la sudditanza a Washington che contraddistingue l’establishment italiano.

di Salvo Ardizzone

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