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Elezioni in Iraq: mentre il Paese brucia i partiti trattano

di Salvo Ardizzone

Da pochi giorni in Iraq si sono concluse le quarte elezioni dalla caduta di Saddam e le prime dal ritiro degli Usa nel 2011, per eleggere i 328 parlamentari. Il fronte politico è immensamente frastagliato, con 277 formazioni che si uniscono in blocchi; gli Sciiti, quasi il 70% della popolazione, dovrebbero eleggere tranquillamente un proprio rappresentante alla carica di Primo Ministro, ma sono ancora più che mai divisi. In attesa dei risultati ufficiali definitivi, che giungeranno fra pochi giorni, fervono le trattative fra i vari gruppi per giungere ad un accordo.

Il Primo Ministro uscente, al Maliki, dopo aver già governato per otto anni, si gioca il tutto per tutto per ottenere il terzo mandato; nel tempo ha costruito un tentacolare gruppo di potere personale, che ingloba anche elementi sunniti, ma non basta a garantirgli la rielezione. Nel frattempo, Muqtada al-Sadr e Hamman al-Hakim, a capo di due blocchi considerevoli, hanno confermato un’alleanza strategica che può condizionare l’elezione del Premier, ed impedire finalmente che la carica debba essere finalizzata unicamente alla costruzione d’un sistema di potere, come fatto da Maliki negli anni.

Parte del clero sciita si adopera con la sua influenza, per far si che questi tre blocchi principali di alleanze sciite collaborino, all’interno dell’Iraqi National Alliance, per la costituzione d’un Governo che, finalmente, si occupi della ricostruzione del Paese, della pacificazione e di far rinascere l’economia e le strutture amministrative. Ma sono in molti a non voler sentire parlare di al-Maliki, dopo i due mandati fallimentari nel corso dei quali ha dato pessima prova; e questo non solo presso i curdi e buona parte dei sunniti, ma anche presso la comunità sciita.

Sia come sia, è praticamente certo che, a meno di qualche esito clamoroso, il Primo Ministro verrà determinato da un accordo fra al-Sadr, Hakim e Maliki. In caso contrario si vedrebbe un’inedita coalizione fra i primi due ed altri gruppi parlamentari, che romperebbe il fronte sciita, fin’ora usato da Maliki per affermare i propri giochi.

Nel frattempo la violenza continua a insanguinare il Paese: da gennaio le vittime sono oltre 3mila di cui almeno seicento fra soldati e poliziotti. L’Isil (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante), formazione jihadista foraggiata alla grande dall’Arabia Saudita per ostacolare la ripresa dell’Iraq e indirettamente l’Iran, sfruttando il malgoverno e i marchiani errori di Maliki, sta mettendo in fiamme la provincia di Al-Anbar e non solo. I miliziani, messi alle strette dall’Esercito, hanno fatto saltare l’oleodotto che dalla raffineria di Beji porta il petrolio in Turchia, inquinando il Tigri. Inoltre, hanno chiuso le dighe sull’Eufrate, provocando un’inondazione che sta giungendo fino a Baghdad, con centinaia di villaggi allagati e danni immensi.

Per ora non se ne parla molto, per non aggiungere fuoco al clima elettorale già troppo acceso, ma quei fiumi sono la vita per l’Iraq, bloccarli o inquinarli significa uccidere il Paese; pare non importi molto ai fanatici jihadisti del tanto peggio, tanto meglio.

Chiunque sarà il Primo Ministro, dinanzi a sé avrà un lavoro terribilmente duro: ricostruire una nazione martoriata e frantumata da un’invasione e dalla guerra civile che è seguita; da quello che abbiamo visto in otto anni, dubitiamo che Maliki sia l’uomo giusto.

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