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Sicilia… la storia vecchia di un sogno bugiardo

Augusta – Quella che racconteremo è la storia vecchia di un sogno bugiardo che ha devastato la Sicilia. Comincia alla fine degli anni ’40; allora, nella zona di Augusta, vicino Siracusa, cominciarono i primi insediamenti industriali che presto si sarebbero moltiplicati a dismisura: sorgeva quello che sarebbe divenuto il primo polo petrolchimico d’Italia.

A quel tempo la cosa venne salutata da tutti con gioia: “Abbiamo le industrie!” diceva la gente, era il sogno di un benessere raggiunto; e il benessere, allora, pareva essere arrivato con gli stipendi sicuri di quelle aziende. Prima, le attività economiche della zona erano l’agricoltura, l’artigianato, le saline e il porto (la migliore rada della Sicilia e una delle migliori del Mediterraneo) che però di traffici ne assicurava pochi, perché non c’era poi tanto da trafficare. Di turismo, in quel territorio splendido e incontaminato non se ne parlava ancora, sarebbe potuto venire dopo, sarebbe (…).

Passò il tempo, le industrie si aggiunsero alle industrie (oggi ci sono 18 insediamenti principali fra Augusta, Melilli e Priolo), l’agricoltura venne abbandonata e delle saline rimasero solo le tracce sulla costa accanto ai pontili delle raffinerie. L’artigianato fu soffocato e il porto, oltre alle attività militari di sempre, si dedicò essenzialmente ai prodotti petrolchimici. Fu tutto il territorio a mutare.

Ma il sogno cominciò a svelarsi per quello che era: i tumori iniziarono a manifestarsi sempre più numerosi, in quel comprensorio non c’era famiglia che non avesse un lutto. Gli aborti crebbero fino ad equivalere le nascite, e molte, troppe, di quelle sembravano maledette, con un incredibile aumento delle malformazioni. Tutto il territorio pareva avvelenato.

Fabbriche di morte

Ormai era divenuto chiaro a tutti che quelle fabbriche avevano portato la morte; la gente mormorava ma si nascondeva, quasi si vergognasse d’essere toccata dal male che veniva da quei fumi, da quelle esalazioni, dai fanghi e dalle scorie delle lavorazioni. E poi, distrutta la possibilità d’ogni altro lavoro, rimaneva il più ignobile dei ricatti: la fame o quell’occupazione maledetta, con ciò che comportava per la salute.

Dinanzi alle rimostranze che iniziavano, le industrie rimanevano indifferenti; gli investimenti iniziali, spesso effettuati impiantando macchinari già obsoleti, erano stati abbondantemente ammortizzati, e la minaccia finale era sempre la stessa. Messi alle strette se ne sarebbero andate in qualche altro territorio ricco di fame e povero di lavoro, dove perpetuare il ricatto: salute o impiego. Di indennizzare, di riparare allo scempio neanche a parlarne.

Nel frattempo, è divenuto difficile tracciare statistiche ufficiali del disastro: il registro tumori dell’Asl è praticamente un oggetto sconosciuto, si sa solo che è fermo al 2006. Inoltre, il reparto ostetrico dell’Ospedale di Augusta è stato chiuso, spostato presso l’Ospedale di Lentini malgrado i casi serviti e il bacino d’utenza fossero assai più ampi. Il motivo è trasparente: così è assai più difficile censire i casi di aborto e di malformazione fra i neonati di quell’area avvelenata.

Lo sviluppo industriale s’è da tempo fermato, nessuna previsione di ulteriori investimenti, di ammodernamenti o ristrutturazioni di impianti e macchinari che, nel tempo, hanno visto troppi incidenti sul lavoro (altro capitolo doloroso); da molte analisi quel polo è destinato a un progressivo smantellamento con il trasferimento delle attività, o semplicemente la fine di esse.

In Sicilia la lotta di un prete coraggio

Ma c’è qualcuno che da anni si batte contro quella strage silenziosa e quel disastro ambientale, ne abbiamo già parlato dedicandogli un pezzo: è il parroco della Chiesa Madre di Augusta (Sicilia), don Palmiro Prisutto. Abbiamo voluto conoscerlo e intervistarlo; ci siamo incontrati in piazza e ci ha indicato un pannello tappezzato di annunci mortuari, molti, troppi, erano stati falciati dai tumori. Nella canonica abbiamo parlato a lungo della battaglia che conduce praticamente da solo, perché venga riconosciuta quella che senza mezzi termini chiama una strage. Ha fretta, teme che di qui a non molto, dopo aver seminato morte e avvelenato tutta l’area, tante di quelle industrie chiudano e si trasferiscano altrove; ottenere un risarcimento per le vittime o una riparazione per il territorio diverrebbe assai più difficile.

È stato un racconto terribilmente lucido, da cui traspariva però tutta la passione di chi ha sotto gli occhi una tragedia immensa che nessuno vuole riconoscere, un racconto che presto monteremo in un servizio perché quella voce venga diffusa.

Dopo l’intervista abbiamo fatto un lungo giro nella zona: abbiamo visto un territorio stuprato, avvelenato, isterilito, ovunque dominato da ciminiere che spandevano fumi, enormi cisterne e distese di tubi. In mezzo alle sterpaglie, fra l’erba stenta e insecchita e qualche rovo, pascolavano alcune pecore di cui non vorremmo bere il latte. Nella rada e nei pontili vicini era un via vai di navi cisterna e petroliere; sotto, sui fondali, ci sono milioni di tonnellate di fanghi tossici, è il motivo per cui non è più possibile dragarla. 

È una situazione assurda, che fa male, coperta da un silenzio che deve essere rotto; torneremo ad occuparcene per dare tutta la voce possibile a chi vuole urlare basta a questo scempio.

di Salvo Ardizzone           

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