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Firmato accordo sul Tpp, il trattato di libero scambio nel Pacifico

di Salvo Ardizzone

Dopo dieci anni dalla nascita del progetto, cinque anni di negoziati spesso arrivati sul filo della rottura e cinque giorni di negoziati finali ininterrotti, lunedì, ad Atlanta, sono state apposte le firme sul Trans Pacific Partnership (Tpp); un trattato che negli annunci ufficiali dovrebbe eliminare 18mila dazi e limitazioni doganali, uniformando i mercati di 12 Stati rivieraschi del Pacifico che rappresentano il 40% dell’economia globale.

Fra i sottoscrittori, oltre ovviamente agli Usa, ci sono Giappone, Vietnam, Australia, Canada e così via: mercati con 800 milioni di consumatori, ma, e questo è l’essenziale, manca la Cina. E qui veniamo al cuore dell’accordo, fortissimamente voluto da Obama, che nelle intenzioni dell’Amministrazione Usa dovrebbe spostare nel Pacifico gli interessi della Superpotenza (il cosiddetto “pivot to Asia”) e contenere l’espansionismo cinese.

A lungo i Paesi firmatari hanno esitato a legarsi in un’organizzazione egemonizzata da Washington, con regole studiate a misura delle sue grandi aziende e che si ripropone di escludere colosso cinese; per questo spiccano le firme di Tokyo (che cede sulla strenua protezione della sua debole agricoltura) e del Vietnam, che compie così una scelta di campo che lo contrappone a Pechino.

Nella decisione a lungo rinviata, ha avuto un ruolo fortissimo il crescente imperialismo del Dragone e la sua politica sempre più aggressiva nel Mar Cinese. Aderendo al Tpp, sono in molti che credono/sperano/s’illudono d’aver sottoscritto una polizza che li metta al sicuro dalle mire cinesi sotto l’ombrello Usa. Che poi la Storia abbia dimostrato infinite volte che quello è un ombrello che si apre solo per la convenienza di Washington, e che comunque il costo di quell’assicurazione sarà amarissimo, è una riflessione ovvia; proprio quella che ha reso per molto tempo dubbiosi Paesi presi in mezzo fra un imperialismo antico e conosciuto (quello Usa), e uno nuovo, rampante (quello cinese).

Pechino, dopo aver molto manovrato per sabotare l’iniziativa, ha accolto la notizia con malcelato fastidio, affrettandosi ad annunciare iniziative concorrenti sulla falsariga dell’Aiib, la Banca Asiatica delle Infrastrutture e Investimenti, avvisaglia dell’inizio di una battaglia commerciale e non solo.

Per Obama si tratta di un indiscutibile successo, costruito molto sulla paura dei partner; adesso la parola passa ai Parlamenti dei Paesi firmatari, e in alcuni di essi, come Vietnam e Giappone, la ratifica è tutt’altro che scontata proprio per le pesanti ricadute che avrebbe.

Anche al Congresso per Obama lo scontro si preannuncia duro, per l’opposizione di gran parte del suo partito, dei sindacati e di molte grandi industrie tradizionali, che vedono insidiati mercati e posti di lavoro. Ma spera di spuntarla grazie all’appoggio dei Repubblicani e dei grandi gruppi finanziari e ad alta tecnologia, che sono i veri beneficiari dell’operazione.

Fra poco toccherà anche alla Ue difendersi dall’attacco del Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership) fin’ora congelato dalle resistenze dei singoli Stati; ma sono poteri immensi a premere per un totale disarmo nei confronti della Finanza e dell’Industria globali, pronte a ridurre l’Europa ad una misera colonia.

È tutto e solo uno scontro fra due rapaci imperialismi che si contendono il dominio del mondo per poterlo sfruttare ciascuno a proprio modo.

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