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Discriminazioni e diseguaglianze ancora mali di questa America

di Salvo Ardizzone

Ferguson, Missouri, agosto scorso: un poliziotto bianco, Darrel Wilson, spara dieci colpi di pistola contro un ragazzo nero disarmato, Michael Brown, uccidendolo; al fatto seguirono proteste furiose che tardarono a sedarsi. Ora, una sentenza del Grand Jury del Missouri stabilisce che il poliziotto non deve essere incriminato e un’ondata di disordini e manifestazioni s’allarga in tutto il Paese, spinta dall’indignazione. Quella decisione di non luogo a procedere incomprensibile, ha radici in molti elementi tipici della società statunitense, alcuni antichi e chiari, ma ce ne sono altri che si sono aggiunti sottotraccia a quella miscela velenosa.

È evidente che negli Usa la tensioni razziali non siano mai state superate; sotto la crosta sottile d’un ipocrita politicamente corretto sono rimaste, anzi, nei lunghi anni della crisi che ha fatto esplodere diseguaglianze e disagio e ridisegnato la distribuzione della ricchezza, sono aumentate. La storia che si siano acquietate perché esistono molti afroamericani di successo è una favola: negli Usa, la principale causa di discriminazione è il denaro, chi riesce ad averne in un modo o nell’altro viene accettato nella propria cerchia, uscendo dalla delimitazione razziale in cui lascia gli altri.

È anche un fatto che la polizia è a tutt’oggi nella gran parte costituita da bianchi, anche e soprattutto in zone a maggioranza nera (a Ferguson, dove la popolazione di colore è il 60%, i poliziotti bianchi sono il 95%), non è un caso, e ci sarà un motivo se fra le richieste dei leader della protesta nera era sempre presente quella dell’assunzione di più poliziotti neri.
Nella sostanza, la componente afroamericana in quanto tale, a parte stucchevoli enunciazioni di principio, è e rimane discriminata da un potere che percepisce proveniente da un establishment bianco, tutelato da una polizia bianca; per questo la vede non neutrale ma a favore dei bianchi, a difesa di leggi che perpetuano la discriminazione (e non è solamente un’impressione se oggi, per i neri, il rischio di venir uccisi dalla polizia è 21 volte (21!) più alto che per i bianchi).
Ma dietro l’uccisione di Ferguson, e le tante altre di cui sempre più spesso i media ci danno notizia, c’è di più, che va oltre la questione semplicemente razziale. In vasta parte della società statunitense, e delle istituzioni che esprime, è sempre più presente il concetto che più che la legge sia l’ordine che vada difeso a ogni costo: è il riflesso rozzo e primordiale di una comunità che, nei traumi d’una crisi economica e politica, s’aggrappa al mantenimento dello status quo come bene supremo.

Secondo questo concetto aberrante, la polizia deve far rispettare l’ordine con ogni mezzo, conferendole una sorta d’immunità in questa “missione”; la perdita dell’immunità, della “mano libera”, condurrebbe inevitabilmente al disordine, al caos.
In tal modo la polizia si pone ed è posta effettivamente al di sopra della legge da quella gente (e dall’establishment che esprime) che considera l’ordine più importante, e infatti oggi i poliziotti sparano assai di più e sono chiamati a risponderne assai meno di ieri, e soprattutto a non vedersi addebitati i propri errori come accade con gli altri cittadini.
Quello che viene radicalmente messo in discussione da una società marcia e malata, priva di valori veri, è il rapporto fra ordine e democrazia, che sarebbe alla base, anche formalmente, di qualsiasi società progredita; secondo tale criterio, i poliziotti vanno difesi a prescindere in nome dell’ordine che “dovrebbero” difendere, e dunque vanno giudicati diversamente dai comuni cittadini. Di qui lo scandaloso non luogo a procedere per Darrel Wilson.
È la percezione di tutto questo, che pesa come una cappa su vasta parte della società Usa, ad infiammare più che mai le proteste di chi non può rassegnarsi a rimanere vittima degli arbitri e della violenza.

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