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Braccio di ferro Usa-Ue sulla clausola chiave del Trattato transatlantico (Ttip)

di Cristina Amoroso

Se le elezioni midterm negli Stati Uniti hanno prodotto un vero terremoto politico con la vittoria dei repubblicani, generando una serie di commenti sui compromessi possibili tra Obama e il congresso, in Europa ci si interroga sulle possibili conseguenze che i risultati potranno avere a casa nostra.

Innanzi tutto, per quanto attiene alle relazioni economiche e commerciali Usa-Ue, è il negoziato in corso per il Ttip, ovvero il trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti, ad attirare l’attenzione dei commentatori e non solo. Com’è noto si tratta di creare una grande zona di libero scambio che dovrebbe portare crescita e posti di lavoro su entrambe le sponde dell’oceano.

Il presidente Obama che vuole chiudere il trattato, potrebbe trovare nei repubblicani una maggiore disponibilità per il “free trade”, addirittura potrebbe avere un’accelerazione se il congresso – come aveva fatto in varie occasioni nel passato – autorizzasse la c.d. trade promotion authority con un meccanismo definito di fast track per cui il presidente può negoziare un accordo soggetto solo all’approvazione o al rigetto del congresso, senza possibilità che venga modificato o peggio bloccato con ostruzionismi senza fine.

Ma è in Europa che il trattato sta vivendo momenti di impasse da quando il nuovo team di commissari europei a sostegno del programma lussemburghese di Juncker ha preso in mano il dossier Ttip in via di negoziazione con gli Stati Uniti. A luglio, non appena nominato, il presidente Juncker aveva annunciato l’abolizione dell’Investor-State-Dispute Settlement (Isds), vale a dire il meccanismo di risoluzione delle controversie tra investitore e Stato. Solo allora a Bruxelles, la posizione dell’Ue sul meccanismo di risoluzione delle controversie Investor Stato è divenuta chiara, posizione ribadita nel suo discorso al Parlamento europeo il 22 ottobre dal presidente della Commissione Jean-Claude Juncker.

Il meccanismo dell’Isds non è altro che l’arma delle multinazionali contro la sovranità degli Stati, è uno strumento presente in un gran numero di trattati di libero scambio e d’investimento. Istituisce un tribunale commerciale ad hoc per proteggere gli investimenti internazionali delle imprese straniere da ingiuste espropriazioni o da un trattamento discriminatorio del Paese di accoglienza. Se prima solo uno Stato poteva far causa a un altro Stato, ora anche le imprese hanno questo diritto, un esempio clamoroso è quello della Philip Morris, che nel 2011 fece causa allo Stato australiano, “colpevole” di aver lanciato una delle più innovative politiche contro il fumo.

Di cause simili hanno già sofferto governi come l’Ecuador, da multinazionali del petrolio, ricorda Florent Marcellesi, portavoce Equo nel Parlamento europeo. Le forze progressiste del Parlamento europeo ritengono che l’attività di questo tribunale sottragga sovranità agli Stati, oltre a criticare la mancanza di trasparenza con cui si sta negoziando l’accordo.

Gli Stati Uniti sono i sostenitori più accaniti di questo strumento. La precedente commissione Barroso l’ha difeso con veemenza. Sono stati firmati in tutto 3.400 accordi con clausole Isds. L’Ue, da sola, ne ha stipulati 1.400. La quasi totalità degli Isds è stata negoziata tra Paesi ricchi e Paesi in via di sviluppo che avevano spesso un sistema giudiziario inopportuno e parziale. Non si capisce quindi quale sia la necessità di creare un tribunale esterno dato che sia l’Ue che gli Stati Uniti hanno sistemi giudiziari affidabili.

Prima è stata la Merkel, circa un mese fa a dichiarare che mai e poi mai avrebbe accettato di firmare il trattato commerciale Usa-Ue (Ttip), se vi fosse compresa la clausola Isds. Poi la Francia lunedì scorso ha annunciato per bocca del segretario di Stato per il Commercio, Matthias Fekl, che non solo non accetta la clausola Isds nel trattato Usa-Ue, ma esclude di poter firmare il Ttip entro la fine del 2015, per prendersi tutto il tempo necessario per approfondire altri aspetti del negoziato che, essendo stato condotto finora a porte chiuse, in totale segretezza, presenta numerose zone d’ombra.

Uno schiaffo per il presidente Usa, Barack Obama, che voleva firmare il trattato entro la fine di quest’anno e forse anche per il premier italiano Matteo Renzi, che, all’inizio del semestre europeo a guida italiana, pensava di poter apporre la propria firma sul Ttip prima del 31 dicembre e che poco più di un mese fa, in un convegno alla presenza dell’ambasciatore Usa, John R. Phillips, aveva assicurato “l’appoggio totale e incondizionato” del suo governo al Ttip.

L’Isds sarà un tavolo di prova importante sul quale si giocherà il braccio di ferro tra Unione europea e Stati Uniti; in attesa dei vincitori,  gli ottimisti – con il Ttip – prevedono un’iniezione di fino a 119.000 milioni di euro, la creazione di centinaia di migliaia di posti di lavoro, l’aumento  del 0,5% del Pil. Tuttavia, i calcoli della American College disegnano uno scenario del tutto opposto: l’attuazione di Ttip potrebbe significare la perdita di fino a 600mila posti di lavoro in Europa, e una rinuncia alla sovranità degli Stati in molte aree, l’instabilità economica e un calo di Pil.

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