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Ricchi affari in Kosovo: ecco le “ragioni umanitarie” dell’intervento militare

Kosovo – Sembra un non lontano ricordo il sinistro sibilo delle bombe che vennero sganciate dai caccia Nato su Belgrado, durante quella che fu chiamata l’operazione “Allied Force”. Eppure, ciò avvenne nella primavera del 1999, esattamente quattordici anni fa. Come in ogni guerra, gli effetti furono devastanti. La Serbia pagò l’amaro conto di 2.500 morti, 12.500 feriti, più un incalcolabile numero, tuttora in aggiornamento, di vittime di leucemia e cancro causate dalle radiazioni delle bombe ad uranio impoverito. È per questo forse che quattordici anni sembrano molti meno, perché corrono lungo un ininterrotto filo rosso sangue.

Per giustificare il primo intervento militare in Europa dopo la fine della Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti addussero le seguenti ragioni umanitarie: liberare il popolo serbo dal dittatore Milosevic e, al contempo, soccorrere la popolazione albanese del Kosovo dalla pulizia etnica. Una versione dei fatti che, tuttavia, non convince. O meglio, convince soltanto laddove prevalga un’interpretazione egoistica, distorta delle “ragioni umanitarie” decantate con solenne enfasi, in quei tre mesi, dalla Casa Bianca e dai suoi sodali alleati.

Nel Kosovo, la regione che gli Stati Uniti hanno voluto liberare dal “giogo” di Belgrado, ancora oggi la stabilità politica e la giustizia restano chimere. In compenso, va delineandosi in modo sempre più definito una fitta rete di affari commerciali che frutta parecchi soldi e che vede coinvolte molte compagnie (e personalità istituzionali) a stelle e strisce. Forse, le “ragioni umanitarie” addotte da Washington nel 1999 non corrispondono ad altro che a un mero interesse economico. Più che umanitarie, dunque, umane, nell’accezione materialistica del termine.

Uno dei progetti economici che sposta un’enorme quantità di dollari oltreoceano è l’affare relativo alla Ptk, Posta Telekomunikacije Kosova, principale compagnia telefonica del Paese unilateralmente dichiaratosi autonomo dalla Serbia nel 2008. La vendita dell’operatore telefonico kosovaro, che conta circa 1,3 milioni di utenti, frutterà al giovane Stato (non riconosciuto come tale da gran parte della comunità internazionale) circa 400milioni di dollari. Intorno alla gara d’acquisto, gravano pesanti accuse di irregolarità atte a far vincere la Albright Capital Management, società statunitense che fa capo a Madalaine Albright, Segretario di Stato Usa proprio negli anni dell’intervento in Kosovo, durante l’amministrazione Clinton.

Sarà un caso, ma la Albright non è l’unica personalità statunitense di quegli anni che oggi raccoglie i frutti della scelta interventista. Westley Clark, già comandante delle forze Nato in Europa, oggi torna, per “ritirare l’incasso”, negli stessi territori che nel 1999 fece bombardare. La società Envidity, che gestisce lui, è in procinto di accaparrarsi una licenza per sfruttare le enormi risorse del sottosuolo kosovaro. Estradando i 100.000 barili previsti al giorno di diesel sintetico di alta qualità, ne trarrebbe un guadagno di 1,5miliardi di euro.

La prima società statunitense a introdursi nel Kosovo “liberato”, però, resta il colosso Halliburton Energy, di cui è stato amministratore l’ex vice-presidente americano Dick Cheney, finito al centro di uno scandalo proprio per aver agevolato la “sua” società durante il mandato alla Casa Bianca. Nel Kosovo, la Halliburton è collegata al progetto Ambo, un oleodotto transbalcanico in fase di ultimazione.

Del resto, la politica statunitense di “proteggere le rotte degli oleodotti” provenienti dal Mar Caspio fu candidamente proclamata da Bill Richardson, Segretario dell’Energia di Clinton, appena pochi mesi prima dei bombardamenti del 1999. “Qui si tratta – affermò Richardson – della sicurezza energetica dell’America. Si tratta anche di prevenire incursioni strategiche da parte di coloro che non condividono i nostri valori. Stiamo cercando di spostare questi Paesi, da poco indipendenti, verso l’occidente. Vorremmo vederli fare affidamento sugli interessi commerciali e politici occidentali, piuttosto che prendere un’altra strada. Nella regione del Mar Caspio abbiamo fatto un investimento politico consistente, ed è molto importante per noi che la mappa degli oleodotti e la politica abbiano esito positivo” (1).

Un messaggio fin troppo chiaro, musica per le orecchie della Halliburton. La stessa società collegata all’ex vice-presidente Cheney, come non bastasse, ha inoltre ottenuto da Pristina cospicue commesse per le forniture militari e l’appalto per la costruzione di camp Blondsteel, una gigantesca base americana (la più grande in Europa, almeno sin quando non sarà ultimato il progetto Dal Molin) che ha una circonferenza di 84 km di filo spinato.

Il territorio del Kosovo, il più povero Paese dell’area balcanica, covo di criminalità e traffici inconfessabili, è interessato poi a un’altra faraonica costruzione dove a guadagnarci saranno soltanto gli stranieri. Ovverosia, l’autostrada che collegherà la capitale Pristina alla sua omologa macedone, Skopje, realizzata dall’impresa edile americana Bechtel Group insieme alla Enco, società turca. Le due società si spartiranno un compenso pari a 1 miliardo di euro.

Cifre enormi, che appaiono viepiù smisurate in confronto alla situazione economica della popolazione kosovara. Un giro d’affari che coinvolge imprese statunitensi e spiega il reale significato delle “ragioni umanitarie” che quattordici anni fa portarono alla dissoluzione della Jugoslavia.

di Federico Cenci

(1)   dall’inchiesta del Guardian “A Discreet Deal in the Pipeline”, 15 febbraio 2001

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