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Connivenze e responsabilità delle agenzie Onu in Rwanda

di Salvo Ardizzone

Vent’anni fa il Rwanda era un mattatoio; dal 6 aprile e per circa 100 giorni s’uccise al ritmo di 8/10mila vittime al giorno: un quarto della popolazione del piccolo Paese, essenzialmente tutsi, venne sterminata. 

Media e politici raccontarono la storia d’una sorta d’improvviso impazzimento collettivo, un massacro tribale come potevano accadere in Africa; era una menzogna colossale, propalata e mantenuta per decenni al fine di coprire fatti e responsabilità. Quello fu un crimine lungamente organizzato e pianificato, i cui preparativi erano in tantissimi a conoscere, e quando, il 6 aprile del ’94 appunto, l’aereo presidenziale fu abbattuto, la morte del Presidente Habyarimana fu solo la scintilla che diede il via al massacro già programmato. 

Allora, in quel Paese, l’intera classe dirigente era totalmente corrotta dal fiume di fondi internazionali privi di controllo, che stornava quasi per intero nelle proprie tasche; quell’autentica gang era nota come la “Casa” (Akazu in lingua locale), la dirigeva la moglie del Presidente, Agathe Kanziga (per la cronaca, all’inizio del genocidio fu subito evacuata dai francesi a Parigi, dove disponeva d’immensi capitali, ed è in Francia che tutt’ora vive indisturbata). Per difendere quel saccheggio e giustificare il disastro economico conseguente, venne individuato un “nemico”, i tutsi, l’antica etnia dominante: esso venne additato come la causa di tutto, esso doveva essere sterminato. 

Responsabili di quella sconcertante corruzione erano alcuni Stati (Francia e Belgio in testa), ma assai di più i funzionari di Banca Mondiale e Onu, che, per non sollevare polveroni, lasciarono correre, secondo un copione che, al momento, si ripete pari pari in Sud Sudan, in Somalia e monta già nella Repubblica Centrafricana. 

Paradossalmente, tutti i funzionari, le cui scelte e le cui codarde omissioni portarono al massacro, vennero promossi e premiati. Il caso più rivoltante è quello di Kofi Annan, allora capo del Dipartimento di peacekeeping (Dpko); nel gennaio del ’94, fu lui che impedì al generale Dallaire, capo del contingente Onu nel Paese, di agire (come chiedeva con insistenza) per prevenire il genocidio, e fu sempre lui che, nell’aprile successivo, propose e ottenne dal Consiglio di Sicurezza una drastica riduzione dei “caschi blu” mentre il massacro era pienamente in corso; per lui si trattava di una “faccenda interna” in cui le Nazioni Unite non dovevano intervenire, e togliere le truppe a Dallaire era l’unica maniera sicura perché il Generale, dinanzi a quella carneficina, non decidesse di agire comunque (quel macello fu fermato solo tre mesi dopo, quando il Fronte Patriottico Rwandese di Paul Kagame conquistò Kigali). Questa “perla” di funzionario fu poi eletto nel ’97 Segretario Generale, e insignito nel 2001 del Nobel per la pace. 

È stato questo il tipo di comportamento che ha contraddistinto la stragrande maggioranza di dirigenti e funzionari di istituzioni internazionali, che per quieto vivere (leggi convenienza, vigliaccheria e carrierismo) hanno volutamente chiuso gli occhi dinanzi a uno spaventoso macello, in questo imitate da tante, troppe, agenzie e organizzazioni umanitarie, che posero la tutela dei propri incarichi e privilegi al di sopra di ogni altra considerazione. 

Questo atteggiamento, che allora improntò l’attività di quegli organismi, non solo è oggi immutato, ma addirittura s’è dilatato e consolidato. Duole e gronda vergogna dirlo, ma l’attenzione primaria delle Agenzie Onu non è focalizzata sui risultati delle azioni condotte dai funzionari, quanto sull’incremento del budget da gestire; tale mentalità, a cascata, si riflette su molte delle Ong collegate ai fondi Onu, sempre più una sorta di club esclusivo, sintonizzato sullo stesso modello operativo. Un andazzo che, ora come allora, coinvolge l’intera struttura e gli Stati membri che dovrebbero controllarla. 

Intendiamoci, lo sottolineiamo: è sbagliato fare di tutte le erbe un fascio; ci sono Ong e operatori che agiscono con la massima serietà e sono meritevoli d’ogni rispetto per ciò che fanno ottimamente a proprio rischio, ma sono loro che, per il proprio agire, si pongono al di fuori dalle logiche di “comodo” imperanti, e per questo vengono sistematicamente emarginate dal “sistema” Onu.  

Col tempo s’è creata una casta di “professionisti della tragedia umanitaria”, un carrozzone che diviene il primo beneficiario d’ogni catastrofe e conta un numero sorprendente di funzionari e operatori (molte migliaia); è attraverso questo meccanismo che si dilapida vasta parte degli aiuti. Chi è colpito da una crisi lo è doppiamente: dalla sventura e dall’ipocrita latrocinio di chi lo dovrebbe aiutare. Per constatarlo, basta guardare i prezzi del mercato immobiliare nelle città africane interessate da un’emergenza umanitaria: schizzano sistematicamente alle stelle non appena arriva il “carrozzone umanitario”; fenomeno un tempo causato solo dall’arrivo dalle Company del petrolio, e osservato da ultimo in Sud Sudan. 

Un esempio per tutti: laggiù, la rappresentante speciale del Segretario Generale dell’Onu, la norvegese Hilda Johnson, pare paghi (mica lei, ma l’Agenzia da cui dipende) 30mila dollari al mese per la sua residenza privata a Juba; i quattrini vanno in tasca a uno dei politici più corrotti del Paese e per questo tenuto fuori dal Governo. Corruzione, non dimentichiamo, che è la causa prima e specifica dei massacri in atto in Sud Sudan. 

Questa “disinvolta” gestione delle risorse alimenta a dismisura corruzione, violenza e il potere delle cricche egemoni nei vari territori, senza alleviare, se non minimamente, le drammatiche condizioni delle popolazioni; lo si vede in Somalia, ancora in una situazione estrema malgrado i tanti miliardi spesi dalla comunità internazionale, e dove il traffico degli aiuti umanitari è uno dei business più lucrosi per milizie e bande criminali. Il medesimo scenario si sta apparecchiando in Sud Sudan e nella Repubblica Centrafricana. Disgustosa ipocrisia a parte, in tutti questi luoghi, chi dovrebbe combattere le sofferenze ne è spesso una delle cause.

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