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Il tramonto del Capitalismo “all’italiana”

Il Capitalismo italiano storicamente è stato ben diverso da quello anglosassone o anche solo da quello d’oltralpe; è stato espressione di famiglie chiuse, contrarie ad aprire la gestione delle aziende per la paura (diremmo la fobia) di perderne il controllo. Per questo, in genere, è stato restio a quotarsi in borsa, per evitare di doversi assoggettare a controlli e a meccanismi di conduzione aziendale che “subiva” come ingerenze “in casa propria”. Per la medesima ragione, è stato più d’ogni altro un capitalismo di relazione, fondato su conoscenze e rapporti assai più che sul denaro che s’investiva e sulle capacità di fare azienda; insomma, quel Capitalismo dei “salotti buoni”, che ai suoi tempi d’oro ha avuto in Mediobanca il suo fulcro e in Enrico Cuccia il suo grande tessitore.

Era il modo di gestir le cose come in un club chiuso, in cui era difficile entrare, e se ci si riusciva era per cooptazione, non certo per capacità imprenditoriale o solidità finanziaria, che erano anzi viste con insofferenza. “Le azioni si pesano e non si contano”, diceva Gianni Agnelli, un principe di quegli ambienti, dove, a parte le apparenze, di soldi veri non è che ne girassero poi tanti. E nelle aziende dove non c’era più la proprietà piena d’un unico gruppo, per stare tranquilli si suppliva con “patti di sindacato”, quegli accordi che legano una cordata d’azionisti a fini e comportamenti comuni, finendo per blindare le società e la loro gestione a prescindere dai risultati, e spesso dagli interessi stessi dell’azienda.

L’imperativo era d’impegna re meno capitale possibile rischiando quello degli altri nell’impresa, possibilmente delle banche, sempre pronte ad aprire la borsa a questi signori blasonati, la stessa che chiudevano (e che chiudono ancora) a chi faceva (e fa) azienda con il sudore del lavoro.

Insomma, era un capitalismo piegato su se stesso, gracile dinanzi al mondo quanto arrogante in casa, sostenuto spesso da una politica contigua, con cui intratteneva spesso rapporti opachi. Se il Sistema Italia ha retto (e in qualche modo regge ancora), l’ha dovuto e lo deve a quel reticolo d’aziende medio – piccole che da sempre sono la sua forza vera; quelle stesse tanto spesso vessate da banche e istituzioni (tanto prodighe invece con le grandi imprese parassite).

Ma i tempi cambiano e spesso all’improvviso: l’impatto della globalizzazione, che ha portato il mondo in casa, e poi la crisi che è venuta dopo, hanno scosso alle fondamenta questo mondo asfittico e ammuffito, che si reggeva su una rete di privilegi spezzata dagli eventi. Dinanzi alle perdite o alle esigenze d’investimenti seri, quasi nessuno di quei “signori dei salotti” ha messo mano al portafoglio per patrimonializzare la propria azienda; l’esempio di Sorgenia vale per tutti, con la Cir che, fallito l’affare, ha mollato la società alla deriva, lasciandola in pasto alle Banche creditrici insieme alle migliaia di dipendenti. Gli stessi “patti di sindacato”, divenuti un impiccio che legava chi voleva solo scappar via, son stati sciolti uno dopo l’altro e gli aumenti di capitale lasciati ad altri che i capitali li avevano e volevano rischiarli; così la composizione azionaria delle più grandi aziende italiane è stata rivoluzionata e il cambiamento è tutt’ora in corso.

L’Italia è oggi terra di shopping da parte d’investitori stranieri che, passate le turbolenze e le paure di default, abbandonano i Paesi emergenti che scricchiolano  e comprano da noi a mani basse scommettendo sui rialzi di borsa; un esempio per tutti è quello di Black Rock, uno dei più grandi investitori istituzionali al mondo, con 4.300 mld di $ di capitali gestiti, che in pochi mesi ha sborsato 4,66 mld di € per acquisire il 5% di Unicredit, il 5% di Intesa, l’8,5% di Monte Paschi, quasi il 5% di Ubi e il 6.85% di Banco Popolare. Ma ripetiamo, è solo un esempio, cui si potrebbero aggiungere le partecipazioni cinesi in Eni ed Enel e tante, tante altre ancora.

Il fatto che arrivino capitali dovrebbe essere un’ottima notizia, ma attenzione: questi non sono capitali che comprano per fare impresa, produrre beni e servizi, dare lavoro. No. Sono fondi d’investimento che comprano quote di società sperando che aumenti il loro valore. Per ora le aspettative sono buone e fanno la fila alla cassa, ma, se il vento dovesse cambiare, liquiderebbero tutto scomparendo nello spazio d’un mattino. E anche se dovessero restare, la loro è un’ottica finanziaria; guadagnare a breve è ciò che a loro importa. È la finanziarizzazione dell’economia, che con l’economia reale, quella che fa ricchezza vera per la gente, poco o nulla ha a che spartire.

Con la frantumazione dei pacchetti di azioni, si dice applaudendo che sia il momento delle “public company”, delle società finalmente in mano a diversi soggetti e non più a uno solo; d’accordo, ma nel nostro caso si tratta per lo più d’investitori istituzionali (fondi, banche, etc.) che si guardano bene dall’assumere responsabilità di gestione. Finché dividendi e quotazioni azionarie in ascesa remunerano il capitale investito va tutto bene, ma la loro ottica è sull’immediato, come detto è finanziaria; fare azienda, fare impresa vera è altra cosa, spesso l’opposto.

Insomma, assistiamo al definitivo tramonto d’un modello di Capitalismo all’italiana, spesso parassita, che ha basato le proprie fortune su privilegi, aiuti, relazioni, quasi mai su meriti e capacità; un tipo di capitalismo che la ricchezza l’ha bruciata, non certo prodotta, sottraendola all’economia vera, a chi lavora.

Badate: non facciamo di tutte le erbe un fascio; di aziende serie che han fatto e fanno impresa, per fortuna, ce ne sono state e ce ne sono ancora. Peccato che a loro si guardi raramente, e ancor più di rado si ragioni sul cosa fare per valorizzare (ma seriamente) le nostre realtà migliori.

di Salvo Ardizzone

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