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Catastrofe umanitaria del popolo Rohingya: disperati alla deriva e senza soccorso

di Cristina Amoroso

Nel silenzio internazionale si sta consumando la catastrofe umanitaria del popolo Rohingya. In migliaia intraprendono il viaggio verso sud dal golfo del Bengala, fuggendo dal Myanmar.

Descritti dalle Nazioni Unite come la minoranza più perseguitata del mondo, ogni anno i Rohingya tentano di sfuggire la discriminazione e la violenza settaria che li ha presi di mira in questi ultimi anni. Il Myanmar nega la cittadinanza alla maggior parte dei Rohingya – minoranza etnica di circa 1,3 milioni – limitandone le possibilità di movimento e di opportunità economiche.

La situazione delle minoranze etniche in Myanmar è una situazione del tutto particolare. I birmani veri e propri sono i due terzi della popolazione del Paese. Vi è un terzo, più del 30 per cento della popolazione, che non appartiene all’etnia Bamar, quella principale, quella birmana vera e propria. Questo terzo della popolazione appartiene a 135 gruppi etnici diversi, con caratteristiche culturali, linguistiche, molto diverse le une dalle altre. Per cui non c’è la possibilità di costituire uno Stato. Alcuni gruppi, più numerosi, i Kachin, i Shan, i Karen, hanno l’ambizione di avere un proprio Stato, e dal 1948, in vari modi, animano anche forme di resistenza armata.

Il caso dei Rohingya è ancora più particolare: si tratta di una minoranza che non ha legami ancestrali con la terra, che non è riconosciuta come membro di una comunità, pur multi-etnica, e dunque non ha alcun diritto. Per di più, sono legati a una componente religiosa specifica, quella musulmana, che non trova, nell’universo buddista-birmano, alcun legame, alcuna simpatia.

Negli ultimi tre anni, oltre centomila Rohingya sono fuggiti dalla Birmania a bordo di barconi gestiti da trafficanti senza scrupoli, in fuga dalle violenze della maggioranza buddista e lasciando spesso alle spalle famiglie che vivono in squallidi campi di sfollati.

Senza speranze in patria e disperati in mare, alla deriva nel mare delle Andamane, a bordo di navi di fortuna, dopo essere stati abbandonati dai trafficanti, sono respinti dai Paesi dell’area, per i quali è inaccettabile l’afflusso di decine di migliaia di persone completamente sradicate.

La Malaysia, la Thailandia e l’Indonesia, seguendo l’esempio della politica australiana, hanno voltato le spalle a esseri umani malati, disidratati e malnutriti, nonostante la pressione di Human Rights Watch, che ha insistito perché non si rifiutasse asilo ai Rohingya in fuga da repressioni e persecuzioni nel loro Paese.

Diversi sono i barconi stracarichi di migranti. Negli ultimi giorni alcuni, circa 2 mila migranti – tra Rohingya e bengalesi – sono approdati sulle coste malesi e indonesiane. Un barcone con 400 persone è stato respinto dall’Indonesia e rispedito verso la Malesia, secondo le autorità locali dopo che i migranti sono stati riforniti di provviste.

Se la loro destinazione preferita è la musulmana Malesia, molti di loro approdano in Thailandia, dove vengono tenuti prigionieri – si sospetta con la complicità delle autorità locali – fino al pagamento di un riscatto. La polizia thailandese ha recentemente lanciato un giro di vite contro la tratta di esseri umani nel sud del Paese, dove sono state scoperte decine di fosse comuni in campi della giungla segreti, gestiti da trafficanti di esseri umani. Dal 1° maggio, circa 40 fosse comuni di immigrati clandestini sono state scoperte a Padang Besar nel sud della Thailandia, con almeno 32 corpi di Rohingya.

Secondo l’Onu, al momento fino a 6mila Rohingya e bengalesi potrebbero essere in viaggio o prigionieri su barconi nel Mar delle Andamane.

Sta di fatto che in Asia sud-orientale non vi è alcun governo disposto a concedere alcunché, per ragioni interne, perché questi Paesi sono meno dotati di infrastrutture, o comunque di una ricchezza economica per accogliere qualcuno che è considerato semplicemente una zavorra, un peso. Per cui, adotteranno senz’altro politiche sgradevoli e disumane, denunciate giustamente dagli organismi umanitari internazionali, incapaci di risolvere la catastrofe del popolo dei barconi che nessuno vuole, nel Mediterraneo come nell’Oceano Indiano.

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