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La sudditanza italiana nelle parole di Edward Luttwak

di Salvo Ardizzone

Edward Luttwak non è un personaggio qualunque, tutt’altro; per chi non ne conoscesse la caratura, ricorderemo che il docente universitario e consulente economico e militare delle Amministrazioni Usa che si sono succedute negli ultimi decenni è un ebreo rumeno naturalizzato americano che, oltre ad aver mantenuto uno strettissimo legame con Israele (da volontario ha anche combattuto nella Guerra dei Sei Giorni), gira il mondo intessendo con i “decisori” a capo delle potenze mondiali rapporti assai più familiari e stretti di quanto sarebbe giustificato dal suo ruolo accademico.

Con l’Italia, Paese in cui ha risieduto da bambino dopo che la sua famiglia era fuggita dalla Romania, ha legami assai stretti e vi svolge da sempre il ruolo di “voce” ufficiosa dell’establishment a Stelle e Strisce. Per questo ha suscitato rumore la sua recente uscita a favore di un nuovo indipendentismo siciliano, che sollevi l’Isola dal baratro in cui sprofonda.

Nella lunga tirata a beneficio di una recente intervista, Luttwak, sfumando sui punti più delicati (e sostanziali) è bravo a picchiare duro sui disastri di una classe politica siciliana inesistente; sulle colpe di uno Stato centrale che nega i diritti dello Statuto siciliano, facendo facile cassa sulle spalle della gente; sull’inefficienza e il clientelismo della macchina regionale che dovrebbe essere azzerata; e poi ancora a dire che con il commercio, il turismo, la cultura, l’Isola potrebbe fare la sua fortuna, salvo sorvolare quando si chiede chi dovrebbe mettere i capitali per quelle iniziative e per la ristrutturazione di porti ed aeroporti, che farebbero della Sicilia un hub mediterraneo.

Senza volerci soffermare su dichiarazioni sentite già infinite volte, e fatte apposta per solleticare le orecchie di chi si sente sprofondare, diremo che l’intervista di Luttwak vuole essere la base di un programma, con in più l’eterna suggestione dell’indipendentismo. Anche se ha 72 anni, le sue non possono essere liquidate come senili fantasie agostane; non da un simile personaggio che, quando parla, fa udire la voce della Washington che conta.

Il legame fra la Sicilia e gli Usa è antico: è dal ’43, al tempo dello sbarco “alleato”, che Washington ha chiaro il ruolo strategico dell’Isola; allora, per assicurarsi l’appoggio dei notabili locali, fece intervenire Cosa Nostra per stringere accordi con le famiglie mafiose siciliane, in un patto che mise radici persistenti.

Negli anni successivi, e fino al ’48, quando non erano ancora chiari gli sviluppi che ci sarebbero stati in Italia, incoraggiò in tutti i modi l’indipendentismo dei vari Finocchiaro Aprile e Canepa, lasciando pure balenare l’idea che l’Isola potesse divenire l’ennesima stella della bandiera americana. Al contempo, attraverso mafiosi e banditismo, manovrò per reprimere i moti contadini che, sotto le bandire del Pci, reclamavano terre e giustizia (l’affare Giuliano, con la strage di Portella e il resto, è il primo di una lunghissima serie di misteri insanguinati targati Usa).

Quando fu stretto il patto di ferro con la Dc (ed altri partiti a supporto), l’indipendentismo divenne un inutile orpello e l’Evis (Esercito volontario indipendentista siciliano) fu buttato a mare; stessa sorte toccò alle varie bande di criminali che erano state lo strumento dei notabili per mantenere il potere, e garantire che tutto rimanesse come prima sotto i nuovi padroni d’oltre Atlantico.

Alla Sicilia rimase lo Statuto messo in mano a un ceto dirigente avido, inetto e inconcludente, attento solo a rapinare tutto ciò che poteva ed a creare reti clientelari che hanno finito per distruggere ogni tipo di Amministrazione dell’Isola e a dissipare montagne di denaro. Corruzione, nepotismo, collusione con la mafia e con poteri occulti come la massoneria, contribuirono a fare della Sicilia una terra sciagurata, col plauso di vasta, vastissima parte della popolazione, che troppo spesso vendeva il proprio consenso per il classico piatto di lenticchie.

Nel frattempo in Italia era il tempo della Gladio di Taviani e delle altre strutture che, nella sua ombra, si dedicarono per decenni alle operazioni più sporche in nome degli interessi Usa. Controllo politico pressoché totale, basi e piena libertà operativa sul territorio erano i pilastri di una totale sudditanza su cui erano in pochissimi a fiatare, e meno ancora a comprendere che quella cessione di sovranità era la radice di tantissimi dei mali antichi di questa terra.

Ma le cose cambiano nel tempo; non fu tanto la crisi che spazzò via la Dc ed i partiti nati nel dopoguerra a far scricchiolare l’impalcatura dell’assoggettamento, tutt’altro. Quelli che li sostituirono furono pronti a perpetuare gli stessi assetti di prima; erano nati per intercettare la domanda di politica che, ciclicamente, veniva fuori dalla società e tradurla in blocchi di potere, sterilizzando le istanze sempre più confuse dietro un mare di parole inconcludenti.

Il fatto è che simili contenitori politici, che di politico nulla avevano ed hanno, col tempo si sono spappolati e non hanno alcuna presa su una società sempre più ondivaga e priva di riferimenti. Insoddisfatta, si, ma incapace di riflessioni articolate che identifichino obiettivi e strategie, pronta a seguire le suggestioni del momento.

Dalla ribellione per la manifesta inadeguatezza dei partiti sono nate diverse ondate di protesta, ma tutte sono state indirizzate su obiettivi innocui, minimali, di forte presa emotiva ma di scarsa (o nulla) capacità di cambiamento.

In fondo è facile quando si negano le ideologie, gli organici sistemi di valori capaci di orientare le scelte; quando si bollano le analisi politiche come inutili perdite di tempo: è così che si può giustificare ogni cosa a seconda dell’umore della gente per cavalcarne il consenso o, più semplicemente, della propria momentanea convenienza. Si punta all’interesse dell’istante, null’altro conta.

Per chi ha memoria lunga, nella storia di questo disgraziato Paese sono stati tanti gli interventi per “pilotare” l’opinione pubblica: le stragi, i complotti oscuri e la stessa teoria degli opposti estremismi furono messi in campo per assicurasi che nulla cambiasse ma, per rimanere ai tempi nostri, i fenomeni dei 5 Stelle e della recente svolta populista della Lega obbediscono alla medesima logica ed hanno, sia pur in modo diverso, le medesime caratteristiche: assenza di un disegno politico e mancanza di una classe dirigente strutturata e con un minimo di preparazione.

Ciò, se da un canto rende più semplice intercettare la protesta indirizzandola su temi di “pancia” senza alcuna elaborazione, dall’altro ne sterilizza totalmente l’efficacia e la capacità d’incidere sulle cause vere del disastro, perché punta solo sui sintomi più visibili dello sfascio. In poche parole, sono valvole di sfogo perfettamente funzionali a perpetuare le base dell’attuale situazione.

Ma il punto è che il disagio rimane, anzi, s’aggrava, e per evitare che altre ondate di protesta possano prendere vie diverse, magari più efficaci e meno controllabili, occorre, con un’operazione di marketing politico, inventare nuovi prodotti da offrire alla gente sempre più esasperata e disperata.

Come abbiamo detto, la Sicilia è troppo strategica per gli Usa perché possa intraprendere una deriva incontrollata; e la scena politica è praticamente inesistente, frantumata com’è fra una miriade di personaggi di infima caratura e di sigle che racchiudono il nulla, o meglio, l’interesse di qualcuno. Dunque sempre meno controllabile.

Di qui la nuova suggestione di un ritorno all’indipendentismo, magari buttando in campo personaggi estemporanei come Pietrangelo Buttafuoco, ultimo a candidarsi (o a essere candidato) a risollevare le sorti della Sicilia in nome di una riedita autonomia.

Intendiamoci: queste sono ancora manovre estive, sondaggi, riposizionamenti in attesa di un dopo che verrà, perché in un modo o nell’altro dovrà venire, squagliatasi la sciagurata quanto fallimentare esperienza di Crocetta. In questa ottica è da interpretare l’intervista di Luttwak; nella terra dei Gattopardi, occorre che tutto cambi perché tutto possa restare come prima.

Certo, fa specie vedere che tutti si prestino plaudenti al gioco: la destra (o quella che così si fa chiamare) è sempre pronta a mettersi al servizio del disegno, e più che mai se dietro si dovesse intravedere l’ombra di Washington; la sinistra (o ciò che di essa ne resta) si distingue per l’inconcludenza, per la capacità di dividersi e parlarsi addosso, sempre più inutile ed autoreferenziale, abbarbicata al potere che le resta.

Ma in fondo perché stupirsi? L’Italia è questa.

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