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Sauditi e qaedisti riaccendono la polveriera irachena

di Salvo Ardizzone

Al Anbar è una distesa arida, interrotta da coltivazioni e da palmeti, che si estende da Baghdad alla Siria. È terra di sunniti che, fino alla caduta di Saddam, dettavano legge sulla maggioranza sciita; è anche terra di Al Qaeda, che sotto tutte le sigle che ha assunto: Aqi (Al Qaeda in Iraq), poi Isi (Stato Islamico in Iraq) e infine adesso Isil (Stato Islamico di Iraq e del Levante), qui ha avuto i suoi santuari.

A lungo gli americani (che lì hanno avuto oltre un terzo delle perdite in terra irachena) hanno tentato di metterlo sotto controllo, contrastati anche dagli uomini della resistenza baathista legata al vecchio regime. L’hanno spuntata solo quando, fra il 2005 e il 2006, hanno creato i Sahwa (Consigli del Risveglio), milizie nate da un accordo con le tribù sunnite, stanche degli ottusi massacri qaedisti. L’accordo ha retto per anni, non ha sradicato del tutto i jihadisti ma ha controllato efficacemente il territorio, tanto che l’Isi (poi Isil) è andato in Siria a fare la guerra per procura dei Sauditi.

Ma all’improvviso, ecco che l’orologio della storia pare tornare indietro e fra il 2013 e il 2014 la tensione è tornata altissima, finché sui telegiornali son corse le immagini di qaedisti per le strade di Falluja e Ramadi, che avevano occupate espellendo le forze del governo.

Per comprendere cos’è accaduto occorre fare un passo indietro: Al Maliki, il Premier iracheno, è l’espressione della maggioranza sciita; il suo operato è però assai lontano dal soddisfare i suoi elettori: troppi traffici, troppi intrallazzi e soprattutto troppo evidente la struttura di potere personale che s’è creata, tanto che già dopo il primo mandato, fu rieletto solo grazie all’appoggio dell’Iran, ottenuto con mille profferte di amicizia.

Allo stesso modo, nei confronti dei sunniti, invece di promuovere una politica di dialogo e di conciliazione, che facesse scordar loro definitivamente la frustrazione per la perdita del potere (cosa che avrebbe potuto fare tranquillamente sulla scia del successo degli Sahwa), ha puntato a spaccare il fronte dei sunniti, inglobando alcuni leader nella propria struttura di potere e tentando di emarginare gli altri. E tutto questo senza far passi politici che accogliessero le richieste di una popolazione da troppi anni nella precarietà; senza sfruttare minimamente il malcontento nei confronti dei qaedisti, anzi, continuando a puntare sulle dinamiche settarie, ha cercato di mettere le tribù l’una contro l’altra e il capo contro il capo.

Il culmine c’è stato il 30 di dicembre scorso, quando alle proteste dei sunniti esasperati ha risposto con l’esercito a Ramadi: ne è nato uno scontro con le milizie con morti da ambo le parti e fra i dimostranti, morti che hanno mandato in pezzi definitivamente quell’alleanza contro Al Qaeda che aveva funzionato così bene. Ora da una parte c’è chi per interessi è legato mani e piedi ad Al Maliki, dall’altra tutti quelli che non ne possono più, e sono in tanti.

Ai jihadisti non è parso vero schierarsi con le milizie sunnite e allearsi pure, in chiave anti governativa, con altri gruppi armati sunniti come l’Esercito degli Uomini dell’Ordine di Naqshbandi, formazione baathista attiva fin dall’arrivo degli americani e ancora finanziata dall’ex numero due del regime Ibrahim al Douri, riparato all’estero. Al Maliki è così riuscito a ridare motivazione all’insorgenza sunnita e a farla saldare con i suoi vecchi nemici qaedisti.

La provincia è ancora in fiamme e la situazione tutt’altro che stabilizzata. Dal canto loro i sauditi han colto al volo l’occasione; i loro obiettivi sono anche troppo chiari: opporsi in tutti i modi alla creazione d’un fronte sciita che da Teheran arrivi fino a Beirut, e inoltre, destabilizzando l’Iraq, ritardare il più possibile che la sua produzione di greggio entri finalmente a regime e torni sui mercati, facendo abbassare i prezzi ed entrando in concorrenza con l’altro petrolio del Golfo; e per questo finanziano a più non posso le bande dell’Isil.

In tutto questo Al Maliki ha dimostrato tutta la sua inadeguatezza e lo sa bene; a maggio ci sono le elezioni, e senza il deciso appoggio iraniano il suo sistema di potere crollerebbe come un castello di carte; per questo manovra per un avvicinamento suo e dell’Iraq alla Repubblica Islamica.

Come finirà è presto per dirlo, ma ad Al Anbar l’ottusa avidità ha riaperto una partita che pareva chiusa. Occorrerà molto sangue per chiuderla di nuovo.

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