Speciale Ucraina: anatomia di un colpo di Stato – Parte II
Nello scorso articolo abbiamo tratteggiato le motivazioni della crisi ucraina, qui descriveremo il come si sia giunti al repentino cambio di regime.
Ormai è assodato che a innescare gli eventi che hanno condotto a Jevromajdan e a quello che è seguito, siano stati gli sforzi di due gruppi di Paesi: quello di Visegrad e quello riunito attorno alla proposta per il Partenariato orientale della Ue; tranne la Svezia, tutti stati dell’ex orbita sovietica, con l’apporto finale e decisivo di una Germania che, abbandonata la tradizionale cooperazione con la Russia, ha deciso d’imporre la propria leadership sull’Est Europa.
A metà del 2013 l’Ucraina è a un bivio: dovrà decidere a breve se aderire all’Unione Eurasiatica di Putin o all’accordo di associazione con la Ue; nel frattempo, Europei e Russi si contendono un Janukovyc irresoluto quanto inetto in un crescendo di promesse, mentre gli Usa stanno ancora alla finestra, attendendo il momento di scendere in campo.
Il 18 settembre Obama rompe gli indugi, iniziando una partita parallela a quella che gli Europei giocano da molto tempo, e incarica Victoria Nuland dell’operazione; sul campo può contare su una rete capillare di Ong finanziate da anni (si calcola che gli Usa abbiano investito ufficialmente almeno 5 mld di $ e altrettanti ufficiosamente, per progetti finalizzati a “rendere l’Ucraina una Nazione sicura e democratica”), inoltre dispone di informazioni riservate ed esclusive sui movimenti di Janukovyc tramite i suoi lobbisti e consulenti politici americani John Podesta e Paul Manafort.
Attivate le Ong, Nuland avvicina gli oligarchi più influenti e con lusinghe e larvate minacce ai loro interessi, li pone discretamente a disposizione; solo i due più importanti resistono ancora a fianco di Janukovyc: Akhmetov e Firtas.
Nel frattempo la crisi economica spinge l’Ucraina sulla soglia della bancarotta e il Fmi, sollecitato ad intervenire dagli Europei, ma influenzato da Washington, pone condizioni draconiane che spiazzano Janukovyc e danno l’assist a Putin, che getta sul tavolo un pacchetto di aiuti straordinari. Preso nella morsa, il Presidente ucraino a fine novembre annuncia di ritirarsi dagli accordi di associazione con la Ue, che dovevano essere siglati a Vilnius il 28/29 novembre.
L’annuncio spinge gli Europei a mobilitare le piazze; la Germania a questo punto scende in campo e agisce pesantemente tramite le sue Ong, soprattutto la Fondazione Konrad Adenauer, che, formando l’ex pugile Vitalij Klycko, ne fa il candidato di riferimento tedesco e degli altri Europei, che ormai stanno in scia a Berlino. Scoppiano i disordini che hanno un andamento alterno, ma entrambe le operazioni, quella tedesca e quella americana, le sostengono, aiutate dalla fallimentare gestione della crisi di Janukovyc.
Fra l’11 e il 14 dicembre Nuland e McCain sono in Piazza Maidan, dando enorme risalto alla solidarietà con i dimostranti, ma oltre all’effetto mediatico (che galvanizza le folle) Nuland mette a segno un colpo esiziale: porta in campo Usa Akhmetov e Firtas, gli ultimi due e più importanti oligarchi che appoggiavano Janukovyc. Al contempo, diviene evidente il sostegno di Washington ad Arsenij Jacenjuk del Partito Patria, che si affianca alla leadership di Klycko.
Obama si convince che la Merkel non abbia nessuna intenzione di rompere definitivamente con Putin, ma voglia ridiscutere l’intesa proponendosi come leader dell’Est Europa; a questo punto esce allo scoperto per inviare un messaggio a Berlino: sono gli Usa ad arrogarsi il ruolo di riferimento nell’appoggio alla protesta (e di conseguenza la facoltà di indirizzarla). La modalità è un piccolo capolavoro: ai primi di febbraio la Nuland, sicura di essere intercettata, chiama da un normale cellulare l’ambasciatore Pyatt a Kiev, spiattellando ciò che della posizione americana vuole si sappia: “Non credo che Klycko debba entrare nel governo…solo l’Onu può sistemare le cose, l’Ue “si fotta!”, e altre disinformazioni. Quando l’intercettazione viene postata su You Tube dai servizi russi, il messaggio viene recapitato forte e chiaro.
Nel frattempo, per evitare che la Piazza sia spazzata via dalla brutalità dei “berkut” (i reparti del Ministero dell’Interno), e far precipitare la situazione bloccata da troppo tempo, entrano in scena gruppi paramilitari collegati ai servizi occidentali come Pravyj Sektor (Settore di destra) e Samooborona (Autodifesa). Il culmine si ha il 20 febbraio, quando cecchini non identificati sparano indiscriminatamente sulla folla e sulla polizia: i morti sono oltre 100. Una provocazione sanguinosa per fare degenerare la situazione (per inciso: chi abbia sparato, e soprattutto fatto sparare, non è ancora del tutto chiaro, sono emersi solo frammenti di verità che indicano una coincidenza d’interessi; in quei frangenti, per motivazioni opposte, sia chi stava dietro ai dimostranti, sia elementi del Ministero dell’Interno che volevano forzare la mano a un tentennante Janukovyc perché usasse le maniere forti, erano intenzionati a far scoppiare tutto). Nelle stesse ore Akhmetov e Firtas escono allo scoperto e le loro Tv iniziano a trasmettere reportage favorevoli a Jevromajdan. È l’epilogo.
La notte del 21 febbraio la Germania pensa d’aver avuto partita vinta: dinanzi a Steinmeier, Fabius (e non si comprende ancora cosa abbia spinto la Francia a fare l’ascaro tedesco) e Sikorsky (la Polonia s’era già rassegnata a mettersi dietro Berlino), Janukovyc e Klycko firmano un accordo di compromesso che, pur rivedendo notevolmente gli equilibri e sancendo nei fatti una leadership tedesca, non è troppo indigesto per Mosca. In quella finestra di tempo (e di opportunità) irrompe l’iniziativa Usa: sotto la spinta di poche migliaia di attivisti armati, la piazza insorge e rigetta gli accordi provocando il collasso generale del sistema.
Janukovyc fugge, la Rada lo dichiara decaduto e in un clima infuocato quanto irrazionale elegge Turcynov Presidente provvisorio e Jacenjuk Primo Ministro, entrambi di Patria, il partito filo Usa. Per Klycko e i suoi sponsor è una disfatta: in 24 ore una politica costruita pezzo pezzo per anni è stata ribaltata, lasciando di stucco Europei e Russi che si sentono scippati.
A cose fatte Washington si aspetta la risposta di Mosca; fra il 22 e il 27 febbraio i servizi americani annunciano i preparativi inequivocabili per una reazione militare, ma non sanno dire dove. Quando Putin dà il via all’occupazione della Crimea, Obama tira un sospiro di sollievo: è un prezzo ragionevole, che al tempo stesso costringe Berlino e anche Pechino a dissociarsi, isolando di fatto la Russia. Ora si tratta d’impedire a Mosca di prendersi il resto dell’Ucraina, e gli Usa, coscienti della vulnerabilità dell’economia russa, vorrebbero puntare sulle sanzioni, ma in questo gli Europei sono cauti, Berlino ma anche Londra in testa.
Gli Stati Uniti usano allora le armi che si rivelano più efficaci, quelle tanto sottovalutate da Putin: i media, che mettono in ombra l’ingerenza americana e condannano l’aggressione russa, ma soprattutto l’arma finanziaria in cui sono mattatori. Colpiscono duro e la borsa di Mosca ha un tracollo, i capitali fuggono e le agenzie di rating newyorkesi rivedono l’outlook della Russia aggiungendo danni ai danni. La Banca Centrale moscovita prova a reagire, ma è una battaglia persa in partenza e brucia solo una montagna di miliardi. L’offensiva di Washington frena bruscamente la furia di Putin (che volentieri avrebbe dato il via alle truppe e non è detto che non lo faccia in futuro) e rimette in riga la Germania (che non archivia però la sua aspirazione di leadership sull’Est Europa che vede solo rinviata, a quando l’America tornerà a guardare altrove).
Sviluppi ce ne sono e ce ne saranno ancora, anche in altri scacchieri, dove Mosca vorrà rendere la pariglia a Washington, ma questo appartiene al futuro e sarà oggetto del prossimo articolo.