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Siria, una torta da spartire

La situazione in Siria resta avvolta nell’ambiguità. Nonostante gli sforzi dei leader ad interim (Isis e Al-Qaeda) per cercare di rimodellare il Paese a immagine e somiglianza di Usa e Israele, affronta sfide scoraggianti. La posta in gioco è alta, poiché questa fase cruciale determinerà la futura governance e le alleanze del Paese. In questo contesto, come interpretano queste trasformazioni i principali attori regionali e quali posizioni è probabile che adottino?

La rapida caduta dei governatorati siriani nelle mani di fazioni armate guidate da Ahmad al-Sharaa (comunemente noto come Abu Mohammad al-Julani), passato da terrorista a leader “modernista”, ha colto di sorpresa la regione. La recente dichiarazione del leader de facto, secondo cui “l’organizzazione delle elezioni potrebbe richiedere quattro anni e qualsiasi elezione valida richiederà un censimento completo della popolazione”, si aggiunge all’incertezza che circonda il sistema politico destinato a sostituire decenni di governo autoritario. Lo shock dell’8 dicembre ha riverberato oltre i confini della Siria, costringendo le potenze regionali a rivalutare le loro posizioni.

Ripensare il Consiglio di cooperazione del Golfo e la riconciliazione araba 

L’improvviso rovesciamento del governo siriano ha sollevato questioni critiche: il Golfo Persico e gli Stati arabi avevano accelerato la loro riconciliazione con Assad? La cattura di Damasco da parte dell’opposizione e la successiva fuga di Assad verso Mosca hanno messo in luce la fragilità della loro strategia. 

Gli Stati del Golfo, in particolare l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, si sono rapidamente mossi per impegnarsi con la nuova leadership. Ore dopo la caduta del governo, l’Arabia Saudita ha rilasciato una dichiarazione in cui affermava di “monitorare i rapidi sviluppi in Siria ed esprimere la propria soddisfazione per i passi positivi intrapresi per garantire la sicurezza del popolo siriano, prevenire spargimenti di sangue e preservare le istituzioni e le risorse dello Stato siriano”.

Il ruolo degli Emirati

Pochi giorni prima della presa del potere da parte dei “ribelli”, il presidente degli Emirati Arabi Uniti, Mohamed bin Zayed al-Nahyan, aveva dichiarato in una conversazione telefonica con la sua controparte siriana dell’epoca che il suo Paese “sta con lo Stato siriano e lo sostiene nella lotta al terrorismo, nell’estensione della sua sovranità, nell’unificazione dei suoi territori e nel raggiungimento della stabilità”.

Il giorno dopo la caduta di Damasco, Abu Dhabi ha ribadito il suo sostegno all’unità e all’integrità della Siria, ma ha anche “invitato tutte le parti siriane a dare priorità alla saggezza in questa fase critica della storia della Siria, in modo da soddisfare le aspirazioni e le ambizioni di tutti i segmenti della popolazione siriana”.

L’Egitto, che senza dubbio ha sperimentato con grande intensità un effetto a catena, ha sottolineato l’importanza dell’unità, dando priorità a un processo politico globale per raggiungere stabilità e consenso. 

In concomitanza con il loro riallineamento geopolitico, i media nei Paesi della regione hanno subito un notevole cambiamento nella loro narrazione degli eventi. Inizialmente, hanno riecheggiato la prospettiva del governo siriano, adottandone la terminologia riferendosi ai gruppi armati come “terroristi”. Nel tempo, tuttavia, questo linguaggio si è evoluto; i media hanno iniziato a descrivere questi gruppi come “opposizione armata”. Alla fine, la caduta del governo siriano è stata inquadrata come la “caduta tanto attesa del governo”. 

Preoccupazioni regionali per il futuro della Siria 

Gli eventi in corso hanno suscitato preoccupazioni critiche: quale forma di governo emergerà in Siria? Cosa accadrà alle fazioni terroristiche? Come se la caveranno le minoranze e gli ex lealisti del governo? 

Per Riyadh, il crollo di Damasco è stato un duro colpo per il suo calcolo geopolitico, lasciando il regno in difficoltà nel ridefinire il suo approccio, ma presenta anche un’opportunità irresistibile per indebolire ulteriormente l’Asse della Resistenza guidato dal rivale Iran. Ha rapidamente inviato una delegazione per incontrare la nuova leadership sotto Sharaa, segnalando un cambiamento pragmatico.

Anche gli Emirati Arabi Uniti si sono rivolti alla nuova amministrazione per valutare una possibile cooperazione, tutelandosi al contempo dal rafforzamento dell’influenza turca e qatariota.

L’Egitto, alle prese con la fragilità politica interna, ha evitato un impegno diretto, limitando il suo coinvolgimento alle aperture diplomatiche. La Giordania, ugualmente preoccupata per l’instabilità regionale, ha convocato una riunione di emergenza dell’Arab Ministerial Contact Committee on Syria. 

I partecipanti, tra cui Arabia Saudita, Iraq, Libano ed Egitto, hanno concordato di “sostenere il ruolo dell’inviato delle Nazioni Unite in Siria e di richiedere al Segretario generale delle Nazioni Unite di fornire tutte le risorse necessarie per iniziare a lavorare all’istituzione di una missione delle Nazioni Unite per assistere la Siria nel sostenere e supervisionare il processo di transizione e per aiutare il popolo siriano a realizzare un processo politico guidato dai siriani in conformità con la risoluzione 2254”.

Agende in competizione

Hadi Qubaisi, direttore dell’Union Center for Research and Development, evidenzia le divergenti priorità regionali, dichiarando a The Cradle:

“L’Arabia Saudita sta cercando di avere un ruolo in Siria perché ha avuto un ruolo nella guerra siriana e ha influenza wahhabita, l’influenza degli sceicchi, delle forze estremiste e di alcune forze militari. Pertanto cerca di ottenere una quota del successo turco, in modo che la Turchia non monopolizzi l’intera opportunità siriana. Vuole anche essere un partner nell’organizzazione della situazione siriana a livello economico e politico, in modo che questo risultato non diventi una piattaforma per sollevare problemi che riguardano l’Arabia Saudita, specialmente in Giordania”.

Per quanto riguarda gli Emirati Arabi Uniti, Qubaisi ritiene che “considerano quanto accaduto un risultato turco e qatariota, e ritengono che questo risultato non debba continuare e tendono a indebolirlo e sabotarlo. E poiché hanno influenza nelle regioni curde e non hanno avuto influenza tra l’opposizione durante la guerra precedente, cercheranno di rendere la costruzione di questa nuova struttura più difficile e complicata”. 

Il ricercatore e scrittore politico aggiunge che l’Egitto “vede questo clima, che indossa in larga misura formalmente un abito islamico, come un fattore influente sulla Fratellanza, soprattutto perché sta attraversando uno stato di grande debolezza a livello economico e politico interno, e teme la diffusione di un’infezione comportamentale dalla Siria all’Egitto”. 

Stabilità e interesse personale 

Chi plasmerà in ultima analisi il futuro della Siria? Mentre le dinamiche interne di un tessuto sociale frammentato e le alleanze politiche contrastanti svolgeranno un ruolo centrale, gli interventi esterni rimangono un fattore significativo. Stati sostenitori come la Turchia e il Qatar useranno la loro influenza con cautela, mentre altri, tra cui l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e la Giordania, valuteranno il loro coinvolgimento per proteggere i loro interessi strategici. 

Tuttavia, Qubaisi sostiene che la leadership di Sharaa mira a neutralizzare potenziali conflitti con potenze straniere promuovendo relazioni equilibrate. Gli interessi contrastanti delle coalizioni del nord (Turchia e Qatar) e del sud (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Giordania) potrebbero portare a una competizione più intensa sul suolo siriano, potenzialmente intrappolando le fazioni curde in più ampie rivalità geopolitiche.

Futura direzione della Siria e stabilità dell’Asia occidentale

Diversi fattori chiave determineranno la futura direzione della Siria e la stabilità dell’Asia occidentale. In primo luogo, la soddisfazione delle potenze regionali per le rispettive posizioni, influenza e guadagni nel nuovo sistema politico avrà un ruolo critico. Ogni Stato valuterà se i suoi interessi strategici sono adeguatamente affrontati e se riesce a mantenere il suo punto d’appoggio nell’ordine in evoluzione.

In secondo luogo, il livello di fiducia che questi Stati hanno nella stabilità a lungo termine della Siria influenzerà pesantemente il loro impegno. Qualsiasi segnale di disordini prolungati o fallimento della governance potrebbe spingere gli attori esterni a riconsiderare il loro coinvolgimento o ad aumentare i loro interventi.

Infine, sarà decisivo il grado in cui la cooperazione tra i principali attori regionali (Turchia, Qatar, Giordania, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti) si allineerà con il loro interesse comune nel mantenere la sicurezza regionale. Se questi Paesi a maggioranza sunnita riusciranno a trovare un terreno comune e a considerare la stabilità della Siria come reciprocamente vantaggiosa, le possibilità di una transizione pacifica e di un processo di ricostruzione miglioreranno significativamente.

Mentre Ankara e Doha celebrano la fine della Repubblica araba siriana come un trionfo politico, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e l’Egitto restano cauti circa la potenziale rinascita di movimenti radicali all’interno dei propri confini. Questi movimenti – molti dei quali questi stessi Paesi hanno precedentemente armato e sostenuto, direttamente o indirettamente, come parte delle loro strategie geopolitiche durante il conflitto siriano – potrebbero ora rappresentare conseguenze indesiderate di un contraccolpo.

di Redazione

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