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Siria, iniziano a delinearsi sul campo gli scenari finali

di Salvo Ardizzone

In Siria, mentre la tregua è ormai definitivamente tramontata, le forze in campo si stanno posizionando per il dopo, quando, liquidate le bande di “ribelli” e Isis, inizierà la partita definitiva per gli equilibri dell’area.

Gli Usa, che a lungo hanno contato sul “califfato” per destabilizzare Iraq e Siria e contrastare l’influenza dell’Iran, si sono resi conto che quella partita è ormai persa e si muovono per avere altre pedine con cui giocare. Ormai da tempo stanno puntando sui curdi, sia per non lasciarli alla Russia, che attraverso loro incrementa la sua già grande penetrazione nell’area, sia perché, fallito ogni tentativo di crearsi una milizia propria, sono l’unico attore disponibile (e che è disposto ad abbracciare Washington).

Di qui, dopo l’invio di un primo contingente di Special Forces in Siria (ufficialmente 50 addestratori, nei fatti assai di più e con ben altri compiti), il dispiegamento di altri 250 elementi; faranno base nei pressi di Rumaylan, in un piccolo aeroporto nel nord-est del Paese rimesso in funzione per l’occasione.

Attraverso i curdi, Washington vuole rientrare in gioco per non lasciare tutta l’iniziativa e il merito della sconfitta dell’Isis a Russia e Iran; al contempo, intende controllare le mosse della Turchia, sempre più nervosa alla prospettiva della creazione di un’entità curda ai suoi confini in strettissimi rapporti con il Pkk.

I curdi, dal canto loro, blanditi da tutti, si sentono al centro della scena ed alzano il prezzo della loro partecipazione della lotta contro l’Isis, invero assai gonfiata dal circo mediatico pilotato dagli Usa; di qui i recenti scontri e le tensioni con Damasco dopo anni di collaborazione. Una vicenda destinata a suscitare nuovi attriti quando si definiranno gli equilibri del dopoguerra, e su cui Washington fa di tutto per attizzare il fuoco. Quello della dirigenza curda del Rojava (il Kurdistan occidentale) è un tirare la corda per assicurarsi vantaggi, ma è irrealistico pensare che chi ha combattuto per oltre cinque anni contro un’aggressione condotta per smembrare il Paese, dopo aver vinto sul campo accetti senza fiatare una sostanziale secessione.

Nel frattempo, anche se le bande di mercenari e terroristi si combattono sempre più spesso fra loro per contendersi le risorse divenute esigue, la guerra è tutt’altro che finita.

Come detto, la tregua è ormai un ricordo e lo stesso Staffan de Mistura, l’inviato dell’Onu, è costretto ad ammettere che i colloqui di pace a Ginevra sono su un binario morto. Il nodo sta nelle irrealistiche richieste avanzate da Riyadh per prima e dagli altri Stati a lei legati oltre che da Ankara; pensare di ottenere a un tavolo negoziale gli obiettivi che non sono riusciti ad ottenere con anni di aggressione è semplicemente assurdo.

Per questo i combattimenti sono dilagati ormai ovunque, anche sulla soglia della provincia di Idlib nel nord-ovest, dove, dopo la completa liberazione della provincia di Latakia, s’erano fermati. Damasco comprende bene che si sta manovrando per tentare di vanificare per via politica i frutti di 5 lunghi anni di guerra e vuole raggiungere sul campo quei risultati che lo rendano impossibile.

Anche l’Iran, che s’è ormai accorto di quanto sia stata bugiarda l’apertura di Washington in occasione degli accordi sul nucleare, vuole chiudere i conti in maniera inequivocabile: per questo, dopo aver cominciato ad inviare reparti dell’Esercito, ora schiera i primi caccia-bombardieri Su-24 (acquistati dalla Russia nel 2007) presso la base aerea di Shairat, nella Siria centrale, appena riadattata e messa in sicurezza dalle recenti liberazioni di Palmyra e Qaryatayn. Un modo per affermare coi fatti, oltre che con la diplomazia, che considera l’appoggio a Damasco irrinunciabile.

Mosca, dal canto suo, continua nella sua azione: il Ministero della Difesa russo ha recentemente annunciato che dall’inizio delle operazioni i suoi velivoli hanno effettuato oltre 9500 sortite d’attacco colpendo più di 30mila obiettivi; numeri che ridicolizzano i simbolici risultati della “possente” coalizione a guida Usa, soprattutto se si considera che ottenuti con un numero di gran lunga più limitato di mezzi. Anche gli altri suoi assetti (artiglierie, lanciarazzi, etc.) continuano a svolgere efficacemente la loro missione, soprattutto nella Siria settentrionale, e i suoi Spetsnaz (le forze speciali) proseguono le operazioni. Un’attività che, con i suoi indiscussi risultati che hanno ribaltato gli equilibri, conferiscono a Mosca un peso politico determinante in tutta l’area.

Ma sono tutti gli equilibri ad essere mutati dal tempo in cui cominciò l’aggressione, quando erano il Golfo e gli Usa a dettar legge, e la Turchia sognava di divenire egemone nell’area. Da allora tutto è cambiato: il Golfo insegue progetti inconsistenti, come provare a legittimare un’opposizione costruita negli alberghi di Riyadh; gli Usa cercano disperatamente attori sul campo da usare (i curdi) o da inventare (come da ultima una sedicente milizia, l’ennesima, che dovrebbe “liberare” la Siria dall’Isis partendo dalla Giordania, ma che si guarda bene dall’entrare in contatto con l’Esercito siriano e i suoi alleati sciiti); la Turchia, che vede crollare tutti i suoi sogni, non sapendo cosa fare alterna aiuti alle proprie milizie turcomanne allo stremo a velleità d’intervento contro i curdi.

Ormai è il campo che sta definendo la scena per la partita finale, quando i tanti che volevano approfittare dell’aggressione per spartirsi la Siria dovranno accettare fino in fondo la propria sconfitta, e gli opportunisti (vedi i curdi) ridimensionare le pretese.

È la Storia che sta dando il suo responso ridisegnando il Medio Oriente.

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