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Rwanda… “In questi Paesi un genocidio non è troppo importante”

di Salvo Ardizzone

“In questi Paesi un genocidio non è troppo importante”, è la frase con cui Francois Mitterand, l’allora Presidente francese, commentò le notizie del genocidio in Rwanda, e riportata da Philip Gourevitch in un suo libro sulla vicenda. Una frase che da sola spiega l’atteggiamento della comunità mondiale dinanzi a quella tragedia mostruosa di vent’anni fa. Tanti ne sono passati, ma il mondo ha fatto in fretta a dimenticare gli almeno 800mila tutsi e hutu moderati trucidati a colpi di machete, armi da fuoco o semplicemente linciati in una mattanza spaventosa durata cento giorni, in un Paese poco più grande della Lombardia, e che ha eliminato circa un quinto della popolazione.

La data ufficiale d’inizio di quel macello è il 6 aprile 1994, quando l’aereo con a bordo i presidenti di Rwanda e Burundi, entrambi hutu, venne abbattuto: da quel momento la morte scese dalle colline e cominciò a falciare al ritmo di 8/9mila persone al giorno, senza fare alcuna differenza fra uomini, donne e bambini. Una pagina che gronda sangue e che fece dire allo stesso Bill Clinton che “la comunità internazionale, insieme agli Stati africani, deve sopportare la sua parte di responsabilità per questa tragedia”. È stato quell’immobilismo, soprattutto di quell’America tanto pronta a mandare aerei e “scarponi sul campo” per mille altri motivi a permetterla. Era il ’94, e lo schiaffo di Mogadiscio ancora fresco con i 19 morti della Operazione Irene e le immagini dei cadaveri dei Delta brutalizzati dalla folla; eppure diplomatici, agenzie di intelligence, militari e persino gli impiegati delle missioni umanitarie avevano fornito in tempo le informazioni necessarie alla catena di comando.

Storico è quello ormai definito come il “Genocide fax”, inviato l’11 gennaio del ’94, ben quattro mesi prima dell’eccidio, dal comandante delle forze Onu, Romeo Dallaire; in quel documento si citava una fonte (Jeanne Pierre Abubakar Turatsinze) secondo cui le milizie hutu stavano pianificando il genocidio. Non entriamo in merito alla lunga diatriba anche legale che ha fatto seguito a quel fax e alla sua possibile attendibilità, è però un fatto che non solo il genocidio è avvenuto secondo le modalità segnalate, ma che c’erano state infinite altre avvisaglie di quanto stava maturando.

Il macello rwandese affonda le radici nel passato coloniale, quando il Belgio separa la popolazione per gruppi etnici (tutsi, hutu e twa) e si appoggia alla minoranza tutsi a scapito degli hutu. Nel 1959 cominciano le prime ribellioni hutu, costringendo centinaia di migliaia di tutsi a fuggire in Uganda, e quando il Rwanda diviene indipendente, a prendere il potere sono gli hutu. Nel ’73 assume il potere il generale Juvenal Habyarimana, che lo manterrà fino al ’94, quando morirà nell’abbattimento dell’aereo, insieme al suo partito, l’Nrmd.

Nel ’92, fra la diaspora tutsi in Uganda, nasce l’Rpf, che comincia la guerra agli hutu, arrivando quasi a conquistare la capitale ruandese Kigali; è l’inizio della fine, con l’odio interetnico diffuso da radio e televisioni come la Milles Collines.

In Tanzania, ad Arusha, nell’agosto del ’93 le parti moderate di hutu e tutsi raggiungono un accordo delicatissimo che prevede l’ingresso dell’Rpf nel Governo e il disarmo delle parti; nell’ottobre l’Onu organizza una missione per supervisionare il rispetto degli accordi di pace. Ma l’accordo non regge; con l’abbattimento dell’aereo le milizie hutu prendono l’occasione per scatenarsi in un’orgia di sangue; la radio incita alla mattanza e le chiese dove i tutsi tentano di rifugiarsi sono teatro di massacri rivoltanti: l’eccidio della Pallottine Missionary Catholic Church di Gikondo e quello della Nyarubuye Catholic Church sono solo esempi spaventosi, come quello di Kibuye, dove 12mila tutsi sono massacrati. E nel pieno di questa mattanza, il 19 aprile, l’Onu decide il ritiro del 90% delle sue forze, testimoniando per l’ennesima volta la sua ipocrisia ed inutilità.

Malgrado le sollecitazioni disperate delle associazioni umanitarie, è solo quando non è più possibile contare i morti che la Francia di Mitterrand manda uomini per fermare le squadre della morte, che avevano già ultimato il loro “lavoro”; ma se Stati Uniti e Belgio chiederanno scusa al mondo per la loro colpevole passività subito dopo l’eccidio, la Francia aspetterà il 2010 per ammettere le responsabilità di quella pagina di storia rivoltante.

Ad oggi solo 93 dei responsabili del genocidio sono stati incriminati dalla Ictr, il Tribunale Internazionale per il Rwanda; a migliaia, benché universalmente conosciuti, sono tranquillamente a piede libero.

Ma quella storia dolorosa ha lasciato un altro frutto avvelenato, perché, secondo Paolo Magri, direttore dell’Ispi, “il Rwanda è la cornice nella quale si sviluppano le motivazioni che spingono l’Onu ad elaborare la dottrina della responsabilità di proteggere per prevenire un genocidio”. È questa la radice, esplicitamente citata nella risoluzione 1973, per giustificare l’intervento in Libia del 2011 e l’inizio dei bombardamenti Nato contro Gheddafi.

È semplicemente ignobile quanto vergognoso che, anche i più efferati massacri, finiscano per essere strumentalizzati dalle logiche di potere e interesse, in quel caso da Francia e Inghilterra. Ma questo è il mondo quale è adesso.

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