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La Libia due anni dopo l’attacco occidentale non è pacificata

di Fabrizio Di Ernesto

Due anni fa, dopo un paio di mesi di preparazione sotto le vesti di rivolte spontanee, in Libia scoppia la guerra vera e propria, scatenata dall’attacco dei paesi occidentali guidati nell’occasione della Francia dell’allora presidente Nicolas Sarkozy.

Era il 19 marzo quando i primi raid dei cacciabombardieri francesi Rafale e Mirage colpirono una colonna di carri armati e di altri mezzi alle porte di Bengasi; poco dopo alcune unità della marina britannica e statunitense fecero partire 110 missili cruise Tomahawk.

Il pretesto dell’operazione, nella quale confluivano interessi politici, strategici ed economici, era stato offerto dal vice rappresentante di Tripoli all’Onu, Ibrahim Dabbashi, che passato, per chissà quali misteriosi motivi, tra le file dell’opposizione, chiese al ‘rais’ di dimettersi, denunciando crimini contro l’umanità da parte del governo e chiese la creazione di una “no fly zone” sulla Libia per proteggere la popolazione civile dalle incursioni delle forze governative.

A due anni da quella guerra, secondo le stime atlantiche, durata “appena” sette mesi ed una settimana, la Libia però è tutt’altro che pacificata tanto che continua la guerra parallela tra i ribelli, sostanzialmente le tribù della Cirenaica, e i nostalgici di Gheddafi, trucidato dalla folla il 20 ottobre 2011, che hanno le loro roccaforti in Tripolitania.

Ufficialmente la guerra è conclusa e la Libia pacificata, eppure proprio in occasione del secondo anniversario dello scoppio del conflitto la Nato si è vista costretta a mettere in campo una speciale task force,  con tanto di droni per la sorveglianza annunciando la determinazione a usare la forza per riportare l’ordine.

Nonostante sia ufficialmente nata la nuova Libia, infatti, continuano a proliferare le milizie armate che, secondo la Nato, ostacolano “lo sviluppo della democrazia”; senza considerare che l’aver fatto perdere la laicità al Paese ha complicato i rapporti con i non musulmani, una situazione sempre più critica che ha costretto a scendere in campo il papa copto, dopo i nuovi arresti di cristiani accusati di fare proselitismo.

Attualmente nella nostra ex colonia è in corso la cosiddetta Operazione Tripoli, lanciata dal governo, per disarmare e smantellare i gruppi armati che agiscono indipendentemente dall’autorità centrale e che di fatto sono il vero potere forte del Paese; operazione che a breve dovrebbe estendersi anche a Bengasi.

“L’unico modo che abbiamo per provare alla comunità internazionale che siamo una nazione responsabile è quello di fare progressi concreti”, ha spiegato il premier Ali Zeidan, annunciando l’avvio dell’operazione, pianificata nelle scorse settimane dopo il blocco degli impianti Eni a causa degli scontri tra milizie rivali, e l’attentato contro il presidente del Parlamento, Mohamed Magarief, il 6 marzo scorso, quando centinaia di armati avevano preso d’assalto la sede dove si riunivano i parlamentari libici.

Da due anni a questa parte la Libia non è certo un paese dove si vive meglio o dove la situazione volge verso il sereno. Oltre alle tensioni interne, che nei mesi scorsi hanno portato all’uccisione del rappresentante diplomatico statunitense ed al ritiro di numerosi ambasciatori da parte di vari Stati occidentali, continua a salire la tensione con il vicino Egitto.

Nei giorni scorsi infatti, la morte in un carcere libico di un cristiano copto aveva scatenato l’ira dei fedeli al Cairo, che hanno preso d’assalto l’ambasciata libica, bruciando la bandiera di Tripoli e costringendo la sede diplomatica a chiudere i battenti.

Come già nella ex Jugoslavia, in Iraq, o in molte altre nazioni ancora, la pace e la democrazia dell’occidente, portano con loro disordini e guerre intestine, come semplici danni collaterali.

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