Rifugiati siriani rifiutano di tornare in Patria

Si prevedeva che la caduta dell’ex presidente siriano Bashar al-Assad nel dicembre 2024, avrebbe innescato un ritorno di massa dei rifugiati siriani. Non è successo. Sei mesi dopo, i dati delle Nazioni Unite mostrano che meno dell’otto percento dei siriani all’estero ha fatto ritorno a casa. La promessa di una nuova era a Damasco si è scontrata con la dura realtà dell’insicurezza, della povertà e della crescente ingerenza straniera.
La crisi dei rifugiati siriani, giunta ormai al suo quattordicesimo anno, è nata dalla guerra, dal blocco economico imposto dall’Occidente e dalla disintegrazione delle istituzioni statali iniziata nel marzo 2011. Quello che era iniziato come uno sfollamento interno si è presto trasformato in un esodo di massa attraverso l’Asia occidentale e verso l’Europa, dando vita a una delle crisi di rifugiati più gravi del XXI secolo.
Il dopo Assad: la persistente crisi dei rifugiati siriani
Nonostante la caduta del governo di Assad, la crisi dei rifugiati siriani rimane irrisolta. All’inizio del 2025, le Nazioni Unite riportano che circa 6,2 milioni di siriani sono ancora registrati come rifugiati all’estero, principalmente in Turchia, Libano, Giordania, Iraq ed Egitto, mentre altri milioni risiedono in Europa e Nord America. Solo una piccola parte di loro è tornata da quando l’opposizione siriana ha preso il potere.
L’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) stima che circa 400mila rifugiati siano tornati in patria tra dicembre 2024 e aprile 2025. Questo numero è leggermente aumentato a 481.730 a maggio, pur rimanendo al di sotto dell’otto percento del totale dei rifugiati all’estero. Questa disparità evidenzia una cruda realtà: la caduta di Assad non si è tradotta in un rimpatrio di massa, come l’Occidente ha lasciato intendere per anni, il che rivela l’esistenza di questioni più profonde e irrisolte che tengono i siriani lontani dalla Siria.
Nei principali Paesi ospitanti dell’Asia occidentale, la Turchia ospita tra i 2,7 e i 3 milioni di rifugiati siriani in regime di protezione temporanea, oltre a circa un milione di siriani non registrati. Il Libano ospita circa 750mila rifugiati registrati, anche se Beirut stima la cifra effettiva a circa 1,5 milioni. La Giordania ospita circa 650mila rifugiati siriani.
Sebbene molti rifugiati possano sognare di tornare, la realtà interviene. Un sondaggio condotto a metà del 2024 ha rilevato che il 57% sperava di tornare un giorno, ma meno del 2% riteneva che ciò fosse fattibile entro l’anno successivo. L’UNHCR individua le preoccupazioni relative alla sicurezza e la mancanza di mezzi di sussistenza stabili come gli ostacoli più significativi. Queste questioni fondamentali influenzano il calcolo del ritorno, un calcolo che non ha subito cambiamenti significativi da quando Assad era al potere.
Perché i rifugiati siriani non tornano
Un sondaggio di maggio ha citato fattori critici che deterrentino il rimpatrio: condizioni abitative e immobiliari (69%), disponibilità dei servizi (40%), sicurezza (45%) e difficoltà economiche (54%). Quattordici anni di guerra hanno lasciato la Siria frammentata, devastata e diffidente. Non esiste una struttura di sicurezza o di governance unificata e affidabile. L’era post-Assad rimane profondamente incerta per i rifugiati siriani.
L’attuale assetto politico di Damasco è un mosaico di attori nazionali influenzati dall’estero. Nonostante la destituzione di Assad, i rimpatriati citano costantemente il miglioramento della sicurezza e dei servizi essenziali come prerequisiti. Un recente sondaggio ha indicato che il 58% dei siriani all’estero rimpatrierebbe solo in “condizioni sicure e dignitose”, mentre il 31% rimane indeciso.
Le sfide legate alla governance sono altrettanto scoraggianti. La nuova leadership, insediata l’8 dicembre 2024 e guidata da Ahmad al-Sharaa (Abu Mohammad al-Julani), legato ad Al Qaeda, ha promesso riforme. Tuttavia, persistono violenze e abusi. Molti rifugiati siriani sono allarmati dall’ascesa di gruppi terroristici, tra cui Hayat Tahrir al-Sham (HTS), alimentando i timori di rappresaglie settarie e autoritarismo.
La vita nei Paesi ospitanti
Oltre i confini siriani, le reti di rifugiati rappresentano oggi un’ancora di salvezza. Dopo oltre un decennio all’estero, i rifugiati siriani hanno instaurato legami comunitari duraturi. In Turchia, il 60% dei siriani in età lavorativa è impiegato, principalmente nel settore informale. Questi lavori, sebbene poco retribuiti, offrono stabilità rispetto alla Siria devastata dalla guerra.
Tuttavia, la maggior parte dei siriani in Turchia rimane socialmente disancorata: oltre la metà dichiara di sentirsi isolata dalla società turca, dove il razzismo è dilagante, mentre l’84% si sente ancora moderatamente legata alla Siria. Questa dualità riflette una tendenza migratoria di lungo periodo, in cui i rifugiati mantengono legami con la propria patria pur integrandosi all’estero.
Un recente sondaggio mostra che solo il sette percento dei siriani in Turchia ha piani concreti di andarsene. Altri esprimono il desiderio di trasferirsi, ma senza misure concrete. La cittadinanza influisce anche sulla permanenza: circa 238mila siriani erano stati naturalizzati in Turchia entro la metà del 2024, garantendo loro piena tutela legale, inclusa l’immunità dall’espulsione. Fonti dell’opposizione turca, tuttavia, stimano che questa cifra potrebbe arrivare fino a 2,5 milioni.
Il paradosso del ritorno: cattive condizioni nei Paesi ospitanti
Nemmeno il peggioramento delle condizioni nei Paesi ospitanti ha alterato significativamente i modelli di rimpatrio. Gli studi dimostrano costantemente che le decisioni di rimpatrio dipendono più dai miglioramenti in Siria – sicurezza, lavoro, servizi – che dalle difficoltà all’estero.
Le divisioni tra le potenze esterne all’interno della Siria complicano ulteriormente la situazione. Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar e gli Stati occidentali continuano a dare priorità ai rispettivi guadagni geopolitici rispetto alla stabilità. Il risultato è un ordine politico frammentato, dominato da fazioni armate e protettori stranieri, con scarsa responsabilità nei confronti dei siriani.
Questa instabilità ha conseguenze concrete. I massacri lungo la costa siriana dello scorso marzo, presumibilmente istigati da elementi sostenuti dagli Emirati Arabi Uniti, hanno richiesto l’intervento della nuova autorità di Damasco. Eventi simili erodono la fiducia e scoraggiano il ritorno.
Economia in caduta libera
Dal punto di vista economico, la Siria è in caduta libera. Secondo il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, il 90% dei siriani vive al di sotto della soglia di povertà. La Banca Mondiale prevede un’ulteriore contrazione del PIL dell’1% nel 2025. Il Programma Alimentare Mondiale afferma che 9,1 milioni di persone soffrono di insicurezza alimentare, di cui 3,6 milioni dipendono dagli aiuti.
L’elettricità è disponibile solo due o tre ore al giorno, paralizzando l’industria e facendo aumentare il costo della vita. Nonostante le promesse del governo di transizione di riformare il sistema bancario e attrarre investimenti dal Golfo Persico, le sanzioni rimanenti e l’isolamento del mercato rappresentano ancora seri ostacoli, anche dopo che Washington ha revocato la maggior parte delle restrizioni nel maggio 2025.
La disoccupazione è dilagante, i costi di carburante e trasporti sono in forte aumento e le reti di sicurezza sociale stanno scomparendo. In molte regioni, il reddito mensile scende sotto i 40 dollari, mentre i pacchi alimentari di base costano il doppio. L’esodo dei professionisti siriani continua a impoverire il mercato del lavoro, aggravando la dipendenza dalle rimesse in assenza di un piano di ricostruzione coerente.
La Siria resta un ritorno ad alto rischio
L’esperienza storica dimostra che gli sfollati tornano solo quando i fattori di attrazione in patria superano quelli di spinta all’estero. Attualmente, questa equazione non favorisce la Siria. Le condizioni per un ritorno sicuro, volontario e dignitoso non sono ancora state create.
La riluttanza di milioni di siriani a rimpatriare non è mai stata in realtà legata a un cambio di leadership: semplicemente non esistono dati attendibili al riguardo. Riguarda le conseguenze cumulative della guerra: insicurezza, collasso economico, frammentazione politica e assenza di giustizia o riconciliazione.
A meno che chi detiene il potere non si concentri sulla ricostruzione di istituzioni credibili e sulla garanzia dei mezzi di sussistenza – e non solo sul rimescolamento delle élite – la prospettiva di un ritorno rimarrà una scommessa pericolosa.
di Redazione