Ricerca – Parafrasando il film dei fratelli Coen, possiamo dire che l’Italia non è un Paese per ricercatori. La relazione del Cnr ha dipinto un quadro dalle tinte fosche per quanto riguarda investimenti in favore di scienze e tecnologie.
“Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia”, questo il titolo del report presentato dal Cnr a Roma. Alla conferenza erano presenti governo, Confindustria e Banca d’Italia. Il quadro presentato è quello di un orizzonte desolante, infatti, l’Italia in Europa è l’ultima delle nazioni per quanto riguarda il numero di ricercatori ma non solo.
Se ne formano anche meno di tutte le altre nazioni, accrescendo il divario con nazioni che investono su quei settori che, come ha dimostrato la pandemia da Covid-19, sono fondamentali. Un esempio? I vaccini trovati nel giro di pochissimo tempo che hanno permesso al virus di arrestare la propria corsa sono uno dei frutti di ricercatori, laboratori e aziende che investono. Cosa che non accade in Italia.
Il perché dei “cervelli in fuga”
Il dottorato di ricerca, in tante nazioni, è il punto massimo alla quale mira uno studente. In America è il coronamento di anni di studi e lì sono le università a finanziare i ricercatori. Se guardiamo l’Italia, dove il dottorato è il titolo più alto, la percentuale della popolazione lavorativa italiana che lo ha conseguito è di appena lo 0,5%. In Unione Europea l’1,2%. Gli iscritti al dottorato, in Italia, sono lo 0,14% mentre nel resto d’Europa lo 0,28%
È presto detto qual è il primo problema, il principale. Lo stipendio. È questa una delle motivazioni che spiega la scarsa attrattività. All’estero chi ha il Phd, guadagna in media 2.700 euro al mese, in Italia? Se tutto va bene se ne guadagnano mille in meno, facendo scattare il fenomeno dei “cervelli in fuga”, quelli che vanno a conseguire un dottorato fuori dai confini. Al momento ben dodicimila “cervelli in fuga” sono sparsi tra Austria, Svizzera, Inghilterra, Spagna, Francia e Usa. In Italia, invece, ci sono circa 4.500 “stranieri”, studenti provenienti da Iran, Cina e India.
Oltre al salario, c’è anche il problema di “genere”, ossia la differenza tra uomini e donne. Quest’ultime prendono ancora meno dei colleghi uomini. Le cifre variano di trecento euro e nelle scienze mediche di settecento euro mensili. In parole semplici se un dottorando prende duemila euro, la collega ne prende 1300. Anche all’estero vi è un gap ma non arriva ai livelli di quello italiano, si ferma intorno ai 200 euro.
Le ricerca italiana è le peggiore?
No, il problema non è quello, anzi. Molti lavori accademici vengono citati da colleghi inglesi, americani, tedeschi, francesi, giapponesi e cinesi. Il problema semmai è fare “Sistema”, che vuol dire ambire ai finanziamenti. L’Italia contribuisce ai fondi europei di ricerca per il 12,5% del totale ma di questa cifra ne rientra solo l’8,7%. il motivo? Numero inferiore di ricercatori, lo 0,6% della forza lavoro contro l’1% della Francia e della Germania ma anche una scarsa capacità di progettazione: solo l’8,6% dei progetti presentati dalle università italiane e dagli enti di ricerca, ottiene i fondi europei.
Se si guarda alla Germania, alla Francia e all’Inghilterra la percentuale sale al 14-15%. L’investimento pubblico in Italia è fermo all’1% e visto che la maggior parte dei dottorandi rimane a lavorare nel pubblico, il quadro è presto completo.
Per quanto riguarda la pandemia, i fondi che sono stati girati all’Italia sono i maggiori rispetto a quelli ottenuti dagli altri Paesi Ue. Come verranno utilizzate tali risorse nei prossimi cinque anni? 17 Miliardi che andranno alla ricerca applicata (61%) e ricerca base (24%) E le imprese? È storica l’arretratezza culturale delle industrie che sono delle vere e proprie zavorre della ricerca che investono poco e nulla, che si rifugiano nei soliti alibi all’italiana: il cuneo fiscale, l’accesso al credito difficoltoso. Cambierà qualcosa?
di Sebastiano Lo Monaco