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Reporter, un mestiere sempre più rischioso

In alcuni Paesi del mondo uccidere o mettere dietro le sbarre un reporter non è un evento poi così straordinario e purtroppo neppure inusuale. Anche in Italia la vita dei giornalisti impegnati in indagini complesse è sempre più a rischio e pericolosa. Lo dimostrano gli eventi accaduti ad Ostia negli ultimi mesi che hanno visto coinvolto il reporter Daniele Piervincenzi, aggredito e picchiato selvaggiamente da Roberto Spada. I fatti hanno acceso i riflettori sulla realtà mafiosa e malavitosa della città alle porte della capitale.

Serena Shim, giornalista libanese corrispondente di Press Tv uccisa in Turchia

Grazie alle indagini portate avanti dalle forze dell’ordine e da reporter coraggiosi e determinati è stato possibile con 32 arresti infliggere un duro colpo al clan mafioso che gestisce i traffici illeciti del litorale romano. Federica Angeli, cronista de “La Repubblica”, vive ormai da anni sotto scorta per le sue inchieste sulle organizzazioni criminali romane.

L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2013 ha proclamato il 2 novembre Giornata internazionale per mettere fine all’impunità per i crimini contro i giornalisti. La data scelta è l’anniversario dell’omicidio di due reporter francesi, Ghislaine Dupont e Claude Verlon, barbaramente uccisi in Mali nello stesso anno, mentre svolgevano il loro lavoro. Quattro anni prima più di trenta giornalisti, di cui almeno 20 donne, erano stati massacrati a Maguindanao (Filippine) nel più grave attacco mai avvenuto nel mondo contro operatori dell’informazione.

Reporter Sans Frontières (Rsf) [1] nel 2015 ha inoltrato la proposta di creare un rappresentante speciale al Segretariato generale dell’Onu con delega alla sicurezza dei giornalisti. Il direttore generale di Rsf, Christophe Deloire, in un’intervista ha illustrato la richiesta[2]: “Un protettore che abbia il peso politico, i mezzi di intervento rapido e la facoltà di coordinare gli sforzi delle Nazioni Unite per la sicurezza dei giornalisti. L’obiettivo è stabilire un meccanismo concreto che rafforzi la legislazione internazionale e riduca il numero dei reporter uccisi ogni anno. Una figura resa necessaria anche dal fatto che l’adozione di diverse risoluzioni fino ad ora non ha portato a risultati concreti, se si guardano le statistiche”. Secondo il rapporto di Reporters sans Frontières, nel 2017 nel mondo sono stati uccisi 65 giornalisti.

Nel 2016 la stessa organizzazione aveva censito 79 morti. L’andamento non indica una diminuzione delle violenze in generale, ma evidenzia piuttosto che molti giornalisti hanno rinunciato a lavorare nelle parti più pericolose del mondo.

Il Paese più a rischio resta la Siria con 12 giornalisti uccisi, il Messico, sebbene non sia zona di guerra, conta 11 morti. Nella nazione del narcotraffico i cartelli della droga e i politici locali hanno imposto il regno del terrore. In Afghanistan si calcolano 9 decessi, in Iraq 8 e nelle Filippine 4. Quando i giornalisti non vengono uccisi, si adottano altri metodi per ridurli al silenzio: leggi contro la libertà di stampa, chiusura di giornali, minacce, il carcere.

In Turchia, dopo il fallito golpe contro il presidente Recep Tayyp Erdogan (15 luglio 2016), sono rinchiusi dietro le sbarre circa 150 persone tra giornalisti, blogger e operatori dei media. Secondo il Comitato per la protezione dei Giornalisti (Cpj – Committee to Protect Journalists) la Turchia ha superato la Cina dove i detenuti sono più di 100 ed in totale i giornalisti detenuti nel mondo nel 2017 risultano essere 262.

Turchia

Il 25 gennaio 2018 ad Ankara è stata rilasciata la reporter e attivista Nurcan Bysal. Era stata arrestata dalle autorità turche per aver criticato sui social network l’operazione militare contro l’enclave curda di Afrin, in Siria. A novembre scorso Baysal, nota per le sue posizioni democratiche e pacifiste e per il suo impegno in difesa dei diritti civili, era stata in Italia, ospite del Forum delle giornaliste del Mediterraneo di Bari.

La stessa Nurcan ha annunciato su Twitter la sua liberazione, ha scritto: “Sto bene, sono a casa con la mia famiglia. Grazie a tutti per il sostegno. Auspico che vengano liberati tutti i giornalisti e gli scrittori in prigione”. Durante il Forum di Bari aveva denunciato: “Chiunque racconti dei crimini perpetrati viene censurato, perseguito, rinchiuso in prigione. Chiunque sia dalla parte della verità viene accusato di essere un terrorista, di fare propaganda terroristica. Dopo il tentativo di colpo di stato del luglio 2016, terrorismo è la parola più diffusa per far tacere le opposizioni, la stampa, gli attivisti, gli scrittori”.

Nel dicembre 2017 a Istanbul è stata rimessa in libertà, dopo otto mesi di detenzione nella prigione femminile di Bakirkoy, la giornalista turco-tedesca Mesale Tolu. La traduttrice per la redazione esteri dell’agenzia di stampa Etha era in carcere da maggio con l’accusa di far parte di un’organizzazione terroristica di estrema sinistra, l’Mlcp (Marxist-Leninist Communist Party). In prigione con lei anche il figlio di soli tre anni. Mesale Tolu ha sempre rigettato con forza l’accusa di far parte di un’organizzazione terroristica. Scende così a 9 il numero di cittadini tedeschi detenuti nelle carceri turche per motivi che Berlino ritiene puramente “politici”. Tra questi, il corrispondente del quotidiano Die Welt, Deniz Yucel, in carcere da un anno, nonostante gli interventi della cancelliera Angela Merkel, del leader dell’opposizione Martin Schulz, e le pressioni dei più grandi quotidiani europei.

Asli Erdogan, tra le più note ed apprezzate scrittrici turche nel mondo, sta aspettando il processo che entro marzo la vedrà protagonista, suo malgrado. Asli è una coraggiosa testimone della resistenza alla persecuzione e alla barbarie. La giornalista racconta da decenni la condizione delle donne e denuncia la guerra sporca combattuta contro i curdi. Nell’estate del 2016 viene arrestata per la sua collaborazione con il giornale Özgür Gündem, chiuso dopo il fallito colpo di Stato del 15 luglio, accusata di aver sostenuto il Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (in curdo Partîya Karkerén Kurdîstan), considerato dal regime turco un’organizzazione terroristica, ha trascorso 132 giorni in carcere. Nonostante la mobilitazione internazionale in suo favore, su di lei pesa ancora l’accusa di «aver agito per la distruzione dell’unità dello Stato», reato punibile con l’ergastolo.

La scrittrice, che ha scelto di rimanere in Turchia, continua a denunciare con coraggio il lato oscuro delle vicende nazionali, come ha fatto con la raccolta di storie e interventi “Neppure il silenzio è più tuo” (Garzanti, pp. 138, euro 15) che ha presentato lo scorso dicembre nel nostro Paese. In questo libro definisce i contorni del nazionalismo turco con l’espressione «esistere nell’assenza», per il modo in cui il mito nazionale si è alimentato negando l’esistenza degli altri popoli, prima gli armeni, poi i curdi, e legittimando per questa via i crimini commessi contro di essi.

“Il presente del mio Paese si è edificato su una menzogna collettiva. In uno dei miei testi scrivo che la Turchia è come un edificio nelle cui cantine sono ammassati milioni di corpi”, ha affermato in un’intervista rilasciata mentre si trovava in Italia lo scorso dicembre.

Cina

In Cina l’attivista per i diritti umani e blogger Wu Gan, noto per l’uso di ironia e umorismo nelle sue campagne, è stato condannato da un giudice, nella città di Tianjin, a otto anni di carcere per “sovversione del potere statale”. Al termine del processo, avviato il 14 agosto 2017 alla Corte del Popolo numero 2, a Wu è stata anche inflitta una pena a cinque anni di privazione dei diritti politici. Wu, 45 anni, è stato accusato di “diffusione di informazioni false su Internet, di esagerazioni nei casi controversi e attacchi al regime”, secondo i media ufficiali cinesi. L’attivista, soprannominato il “macellaio volgare”, era stato arrestato nel maggio 2015 quando aveva protestato a Nanchang, una città nel sud-est del Paese, per l’arresto di quattro persone poi torturate per estorcere confessioni forzate nel coinvolgimento in un reato. Un anno più tardi i quattro imputati sono stati assolti.

Nell’agosto 2016 Wu Gan era stato nuovamente arrestato. Ha sostenuto di essere stato torturato mentre la sua famiglia sarebbe stata minacciata. Wu è diventato famoso nel 2009 denunciando il caso di Deng Yujiao, una giovane donna cinese che uccise un politico locale nella provincia di Hubei, nel sud del Paese, quando questi cercò di abusare sessualmente di lei. Il fatto riscosse un notevole interesse mediatico, suscitò nell’opinione pubblica cinese un’ondata di simpatia per le donne. Il caso è stato fonte di ispirazione di parte del film “A Touch of Violence” del regista cinese Jia Zhangke, premiato al Festival di Cannes 2013 per la migliore sceneggiatura.

Malta

Poco lontano dall’Italia, nella vicina Malta, nell’ottobre dello scorso anno è stata uccisa la giornalista blogger Daphne Caruana Galizia. La sua auto è stata fatta saltare in aria con una bomba di forte potenza. Impegnata da sempre ad indagare sulla corruzione diffusa tra le istituzioni maltesi, Daphne Caruana si era fatta molti nemici nei 30 anni di attività giornalistica, in particolar modo da quando aveva iniziato ad investigare sulla corruzione del mondo politico, d’affari e criminale d’alto livello dell’isola. Aveva 53 anni, ed ha lasciato tre figli. La sua carriera era iniziata nel 1987 al ‘The Sunday Times of Malta’, ma era diventata famosa come blogger anti-corrotti con il suo influente ‘Running Commentary’ dove denunciava senza paura politici potenti, professionisti e dirigenti corrotti.

Il 20 aprile 2017 erano apparsi sul blog i suoi articoli che avevano messo in enorme imbarazzo il governo maltese, in particolare il premier Muscat. Galizia aveva rivelato – con tanto di documenti pubblicati online – che la moglie del premier maltese aveva ricevuto milioni di euro dal regime azero che, negli ultimi anni, aveva firmato parecchi accordi in campo energetico con il governo de La Valletta.

Italia

Il nostro Paese, secondo il rapporto di RsF, si trova al 52° posto per libertà di stampa a livello mondiale. Sei reporter italiani vivono sotto scorta per aver ricevuto minacce di morte da parte della mafia o gruppi terroristici. Secondo uno studio portato avanti da anni dall’associazione “Ossigeno per l’Informazione” [3], ad oggi, sono 3508 i giornalisti italiani che dal 2006 hanno ricevuto intimidazioni, di cui 423 nel 2017. L’osservatorio fu istituito dopo le gravissime intimidazioni ai giornalisti Lirio Abbate, Roberto Saviano e Rosaria Capacchione, con l’obbiettivo di monitorare la condizione dei numerosi cronisti minacciati in Italia e con l’intento di rafforzare la loro protezione. Il primo Rapporto annuale di “Ossigeno” fu consegnato il 20 luglio 2009 al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

di Patrizia Larese

[1] https://rsf.org/

[2] vedi Millenium – Il Fatto Quotidiano – dic. 2017-genn 2018

[3] www.ossigeno.it

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