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Reddito di cittadinanza e la rivolta del Sud

È di questi giorni la notizia del taglio del reddito di cittadinanza, una delle politiche sociali cavallo di battaglia del Movimento 5 Stelle che lo approvò insieme alla Lega di Salvini, tra i non pochi mugugni di quest’ultimo.

Il governo Meloni, che naviga con il vento in poppa e con il favore di buona parte degli italiani, ha mantenuto la promessa: dal primo agosto viene tagliato il RdC. A farne le spese sono soprattutto le regioni del Sud dove mancano politiche sociali, di inserimento e lavorative.

Reddito di cittadinanza, “via la gente dal divano”

Questo è stato lo slogan che la Meloni ha lanciato durante la sua vittoriosa campagna elettorale, uno slogan che ha trovato terreno fertile soprattutto tra le piccole e medie imprese, che poi sono la maggioranza dei suoi elettori. La Meloni ha dichiarato: “La gente, soprattutto chi può farlo, deve tornare a lavorare”. Ci sarebbe da chiederle dove, visto che soprattutto nelle regioni del Sud manca il lavoro e gli uffici di collocamento funzionano a singhiozzo, quando va bene.

Il Mezzogiorno perde potere d’acquisto

Quello che il presidente del consiglio ignora, o forse finge di ignorare, è che il Sud o quello che viene definito “Mezzogiorno”, si trova dinnanzi ad un fenomeno: la perdita del potere di acquisto.
Dal 2008 al 2022, i salari del Sud Italia hanno perso il 12% del potere reale, contro il 3% di quelli del Nord. Gli occupati con un contratto a termine sono il 22,9% contro il 14% del Centro-Nord mentre, i dipendenti con retribuzione lorda oraria inferiore ai 9 euro sono il 25,1% contro il 15,9% del Centro Nord.

Realtà ancora più grave

Dal calcolo bisogna togliere i lavoratori della Pubblica Amministrazione che nel Mezzogiorno sono 1,4 milioni, su un totale di 4 milioni circa di lavoratori dipendenti. Facendo una banale sottrazione si può affermare che, nel settore privato un lavoratore su 2,7 pari al 37%, riceve una paga oraria inferiore ai nove euro.

Senza considerare il lavoro nero, ossia il lavoratore totalmente clandestino, anche se molti settori dell’agricoltura hanno scelto la strada del lavoro part-time per la sola ragione di copertura negli eventuali controlli.

I lavoratori di tale settore, spesso, firmano un contratto di tre/quattro ore giornaliere, dove vengono registrati e assicurati ma l’inghippo è che di ore ne fanno almeno il doppio e, quando gira bene, vengono pagati in nero con un salario nettamente inferiore ai nove euro l’ora.

Si è dinnanzi ad una situazione insostenibile sia per i giovani che per le famiglie, veri ammortizzatori sociali ma anche loro devono fare conto della perdita del potere di acquisto. Inserire un salario minimo, che sarebbe di nove euro l’ora, di molto inferiore rispetto alla media Ue, sarebbe una cosa sacrosanta.

di Sebastiano Lo Monaco

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