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Quella vergogna tutta italiana tra le rovine di Palmyra

di Cristina Amoroso

Appena una settimana fa, tra le rovine di Palmyra è stata celebrata la vittoria con un concerto ad opera della Filarmonica di San Pietroburgo.

L’antica città, famosa per i suoi templi religiosi ed altre grandiose strutture, è rimasta sotto il controllo dello Stato islamico dal maggio del 2015 fino a pochi giorni fa, quando è stata riconquistata dall’esercito di Bashar al-Assad anche grazie ai bombardamenti compiuti dall’esercito russo.

Liberata Palmyra, rimanevano sul terreno le “armi del cataclisma sociale” che perpetuano la povertà e impediscono lo sviluppo: mine, bombe di demolizione, dispositivi esplosivi improvvisati. Circa 180mila ordigni disseminati dai miliziani dell’Isis nell’area di Palmyra!

La transizione alla vita pacifica, il recupero delle infrastrutture e l’economia hanno bisogno dell’aiuto professionale immediato di specialisti di sminamento umanitario tecnicamente attrezzati.

Ed è l’International mine-clearing Center delle Forze Armate Russe che sta provvedendo alle operazioni di sminamento della città, durante le quali sono state trovate armi prodotte in vari Paesi, tra cui l’Italia. In una nota ufficiale dello stesso si legge: “Gli ordigni esplosivi più moderni utilizzati dallo Stato islamico per minare Palmyra, sono stati realizzati in quattro nazioni: Italia, Usa, Russia e Cina”.

Sapevamo che l’Italia è tra i principali produttori ed esportatori di Anti-Personnel Mine (Apm) al mondo. La sua industria ruotava attorno a tre piccole imprese: Valsella e Misar, con sede a Brescia, nel nord, e Tecnovar, a Bari nel Sud Italia. Tutti e tre specializzate in mine e in prodotti legati alle mine, e sono state coinvolte in esportazioni dirette e produzione all’estero su licenza. Favorite da notevole supporto bancario, da finanziamento pubblico per maggiore sviluppo di armi e da un governo italiano permissivo sull’export, queste aziende ottengono rapidamente notevoli vendite e grandi profitti.

Per fare qualche esempio, la Valsella ha prodotto dieci tipi di mine antiuomo. La Vs-50 è stata una delle mine a scoppio più comuni, che possono essere disperse da veicoli terrestri o da elicotteri. Le mine Vs-50 sono state vendute a diversi Paesi, tra cui il Marocco, (1976, 1977, 1978), il Gabon (1981), e l’Iraq (1980, 1981, 1982, 1983). Le altre mine sono fondamentalmente derivazioni delle Vs-50.

Negli anni ’80, Valsella ha iniziato a corteggiare anche uno dei clienti allora proibiti e rari, il Sud Africa. L’azienda ha fornito al governo di Pretoria le informazioni tecniche per la sua mina antiuomo Valmara-69. Un brevetto per la mina è stato registrato in Sud Africa, il 5 dicembre 1979. Nello stesso anno, 90mila Vs-Mk mine antiuomo furono caricate sulla nave danese Pia Frem, nel piccolo porto di Talamone, in Toscana. La destinazione ufficiale era il Paraguay, via Buenos Aires, ma la sua vera destinazione era il Sudafrica, poi sotto embargo internazionale. Altri Paesi furono destinatari delle mine Valsella: Angola, Singapore, Somalia ed Iraq.

Il maggior successo della Misar è stato il modello rotondo Sb-33, semplice, affidabile ed economico, venduto in Argentina (guerra delle Falkland), Spagna (alla Expal con destinazione finale Iraq), alla società greca Elviemek (anche, con destinazione l’Iraq) e allo Zaire (1982 ). In Portogallo la produzione su licenza di SB-33 è iniziata nel 1984.

Quanto alla Tecnovar, oltre alla produzione nazionale militare, nel 1979 ha cominciato ad esportare verso i clienti in Nord Africa e in Medio Oriente, soprattutto in Egitto. Attraverso l’Egitto, le mine Tecnovar si trovano in diversi Paesi, tra cui l’Afghanistan e il Ruanda. Tra il 1990 e il 1992, il governo italiano ha autorizzato anche l’esportazione di oltre 200mila mine antiuomo e anticarro in Egitto. Il 17 settembre 1996, un membro della Commissione Internazionale d’inchiesta dell’Onu sul Ruanda ha trovato mine antiuomo della Tecnovar in un magazzino di armi confiscate ai gruppi armati Hutu.

Alla fine degli anni ottanta, l’Italia ha cominciato a cambiare la sua politica sulle mine e la pressione pubblica generata dalla campagna anti-mine ha provocato il colpo di grazia per l’industria: la decisione del governo italiano di fermare e poi rinunciare alla produzione di queste armi.

Resta difficile valutare quanto il know-how italiano e la capacità produttiva siano stati trasferiti ai Paesi in via di sviluppo prima del divieto, e il suo impatto sulla proliferazione delle mine antiuomo oggi.

Sta di fatto che l’Italia rimane vergognosamente complice delle atrocità dell’Isis in Siria.

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