Quali carte può ancora giocare Israele?
La relativa quiete di questi ultimi anni, imposta dall’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) per conto di Israele, ha portato gli israeliani a credere di poter godere di pace e prosperità senza la fine dell’occupazione. Sono passati tredici anni dalla prima Intifada, scoppiata nel dicembre del 1987, all’inizio della seconda, nell’ottobre del 2000. Entrambe sono durate cinque anni. Ne sono trascorsi altri 20 dall’inizio della seconda Intifada, e 15 anni da quando è finita.
Se la storia e l’esperienza ci insegnano qualcosa, il lasso di tempo sembra essere quello giusto per l’arrivo di una nuova generazione di giovani palestinesi disposti a confrontarsi con Israele, come hanno fatto i loro fratelli maggiori e, prima ancora, i loro genitori. Questa teoria è da ritenere valida anche se si guarda il profilo di chi sta effettuando questi nuovi attacchi e di chi ha preso parte alle manifestazioni dei giorni scorsi, per la maggior parte persone di età inferiore ai 20 anni.
Gli eventi di queste ultime settimane non sono un’Intifada. Gli attacchi e le manifestazioni contro simboli e obiettivi israeliani, civili e militari, sono iniziati nel lontano 1970, con frequenza variabile. L’Intifada, la prima come la seconda, è stata caratterizzata da una rivolta che ha visto una mobilitazione a tutto campo di una gran parte della società palestinese e delle sue istituzioni (anche se la seconda intifada è diventata in poco tempo una vera e propria lotta armata di un numero relativamente piccolo di militanti).
La situazione attuale è diversa. Anche Netanyahu è stato costretto ad ammettere che l’Anp non ha nessun ruolo nei disordini in corso. Gli attacchi sono concentrati sopratutto a Gerusalemme Est, sotto il controllo di Israele, e non in Cisgiordania. Questo è anche il motivo per cui Israele farà di tutto per evitare il collasso dell’Autorità e, con esso, il ritorno alla situazione pre-Oslo, cosa già chiamata da un certo numero di demagoghi della destra israeliana. L’Anp, come contractor della sicurezza di Israele, è molto più efficiente nel mantenimento della pace di quanto lo Shin Bet e l’Israel Defense Force (Idf) siano mai stati.
Israele, la strategia internazionale dell’Olp è crollata
L’Anp è un’istituzione insolita. Una parte consistente del suo bilancio, almeno il 25%, è dedicato alla sicurezza. Non tanto a quella dei palestinesi quanto la sicurezza degli israeliani. Agli agenti della polizia palestinese è vietato proteggere i palestinesi dagli attacchi dei coloni israeliani. Devono rivolgersi all’Idf per essere difesi.
Negli ultimi dieci anni, l’Anp ha assunto il ruolo di appaltatore dell’occupazione, con l’idea che la calma in Cisgiordania avrebbe creato le condizioni necessarie per la ripresa dei colloqui di pace con Israele. Questo è ciò che è stato sempre promesso ai palestinesi – se fermate la violenza, riprenderemo a parlare e avrete il vostro stato.
Ormai è chiaro, però, che la dinamica è esattamente opposta. La calma sul terreno ha di fatto convinto gli israeliani di poter godere di pace e prosperità anche senza la fine dell’occupazione. Il tragico paradosso è che gli anni di Intifada hanno spinto Israele a fare delle concessioni (Oslo e disimpegno da Gaza), mentre negli anni di relativa pace hanno avuto come risultato una linea più dura da parte israeliana e la continua espansione degli insediamenti. In settimane come questa, è triste ricordare la commozione suscitata da Netanyahu con la sua richiesta ai palestinesi di riconoscere Israele come “Stato Ebraico”, e non solo lo come “stato di Israele”. Come se Israele necessitasse di Abbas per affermare la propria identità. È certo che se Abbas avesse riconosciuto Israele come stato ebraico, Netanyahu avrebbe inventato qualcosa di nuovo da chiedere. Qualunque cosa pur di non raggiungere un accordo.
Washington non farà mai pressioni serie su Israele
Quando la leadership dell’Olp capì che con Israele non si sarebbe andati da nessuna parte, non ebbe scelta che cercare la pressione della comunità internazionale – prima degli Stati Uniti e poi dell’Unione Europea. La questione è che Washington non farà mai pressioni serie su Israele. Se si compara il coinvolgimento americano nel raggiungere un accordo sul nucleare iraniano all’approccio sulla questione palestinese, le cose si mettono a fuoco piuttosto rapidamente. L’accordo con l’Iran era una questione di interesse nazionale per l’amministrazione Obama. Il conflitto israelo-palestinese è poco più che una seccatura.
I drammatici sviluppi nel Medio Oriente, in Siria in particolare, sono stati il colpo di grazia alla strategia internazionale della Palestina. La Siria è passata dalla guerra per procura tra Iran, Turchia e Arabia Saudita a quella tra Stati Uniti e Russia, con conseguenze enormi per l’intera regione e oltre – e se questo non fosse abbastanza, gli americani stanno iniziando a preoccuparsi della stabilità della Giordania. A queste condizioni, la strategia di Israele di fortificare e mantenere lo status quo nei territori occupati è apparsa immediatamente ragionevole. La strategia internazionale dell’Olp è collassata completamente e Abbas non ha mai un piano B.
Un conflitto da una parte sola
Non so quanto i giovani palestinesi che protestano in Cisgiordania e a Gerusalemme Est pensino o si preoccupino dei più vasti equilibri geopolitici. Ciò che invece risulta chiaro è che nel corso degli ultimi due anni, il percorso diplomatico ha generato solo più sconforto nei territori palestinesi occupati. Questo sentimento è percepito da ogni singolo palestinese – vi è un’incapacità di immaginare anche solo una catena teorica di eventi che possa un giorno portare alla fine dell’occupazione. In queste circostanze, alcuni pensano alla loro vita quotidiana a Ramallah o Jenin, che si è un po’ ripresa negli ultimi dieci anni, mentre altri sono disposti a ricorrere a misure disperate.
Gli israeliani amano parlare di “incitamento” nei territori occupati, unica spiegazione confortante per giustificare la violenza che scoppia di tanto in tanto. Il senso della giustizia di Israele è supportato solo dal fatto che i palestinesi sostengono la violenza mentre, da parte israeliana, si auspica pace e tranquillità – anche un po’ di normalità, di ripresa economica e la rimozione di qualche posto di blocco qua e là. Così, per dimostrare buona volontà.
La situazione, ovviamente, è completamente diversa. I palestinesi sono soggetti alla quotidiana e arbitraria violenza dell’occupazione, mentre gli israeliani continuano a godere di prosperità e tranquillità. Il conflitto “israelo-palestinese”, per la maggior parte del tempo, esiste da e per una sola delle parti coinvolte.
Prigionieri nella propria terra
I palestinesi sono prigionieri nella propria terra. Non possono muoversi liberamente, non possono entrare e uscire dal loro paese. Le visite dipendono dalla volontà del regime militare israeliano. Lo stesso vale per la percorribilità di alcune strade e per la costruzione di nuovi quartieri o singole abitazioni. Anche la protezione dagli attacchi dei coloni ebrei dipende dalla buona volontà di Israele e l’esercito non ha mai considerato la sicurezza dei palestinesi come parte integrante delle loro missioni nei territori occupati. I palestinesi vengono giudicati nei tribunali israeliani e possono essere imprigionati senza accusa né processo, e così via. E, naturalmente, non godono dei diritti politici come voto o rappresentanza.
La politica è sempre stata un sostituto alla violenza nella gestione dei rapporti tra i vari popoli, perciò chi non ha diritto di partecipazione nella vita politica giunge facilmente alla conclusione di non avere altra strada se non quella della violenza. Anche se venisse cancellato ogni singolo post contro Israele e gli ebrei dai social media, la violenza continuerebbe. Allo stesso modo in cui lo smantellamento delle strutture di Hamas non fermerebbe il sostegno del popolo alla causa palestinese.
Dobbiamo ricordare a noi stessi, ogni volta che è necessario, che l’occupazione è l’infrastruttura estrema del terrorismo. Bisogna essere particolarmente ciechi per pensare che una disuguaglianza estrema con più di mezzo secolo di oppressione possa portare ad altro risultato.
Non possiamo nemmeno più illuderci del contrario: la fine dell’occupazione non può portare la pace, certo non nel breve periodo, ma continuare con l’occupazione porterà di sicuro a una guerra.
La tranquillità ha un prezzo
Le cattive notizie sono due. La prima è che diventa molto più difficile arrivare a soluzioni politiche in assenza di strutture di potere centralizzate. La seconda è che nella storia di questi due popoli ci sono voluti 4 o 5 anni di reciproco massacro perché si formasse un consenso interno in Israele disposto a prendere in considerazione delle reali concessioni (Olso e disimpegno da Gaza). In questo momento non vi è nessuna prospettiva di una soluzione temporanea o permanente. Non vi è alcun sostegno dell’opinione pubblica e non ci sono parti politiche che spingano in quella direzione.
Il leader dell’opposizione, Isaac Herzog, ha chiesto al governo di assediare completamente i territori occupati. Il ministro Naftali Bennet ha proposto di costruire nuovi insediamenti in Cisgiordania. L’ex ministro degli Esteri, Avigdor Liberman, ha invitato la società civile israeliana a vendicarsi contro gli arabi. Yair Lapid ha espresso sostegno per i coloni che vivono nei quartieri arabi di Gerusalemme Est. Netanyahu si presenta come il politico con più sangue freddo tra tutti quelli che vogliono detronizzarlo, ma è chiaro che non basterà questo per un reale passo in avanti.
Eppure non c’è modo di giustificare il sentimento di impotenza e vittimismo che sta riempendo le strade di Israele in questi giorni. La nostra situazione attuale non è una tragedia, è piuttosto una realtà che è stata scelta dalla leadership politica israeliana, con l’appoggio della stragrande maggioranza degli elettori. Le carte sono ancora nelle mani di Israele, titolare di un enorme potere.
Israele e negoziati
Lo “Stato ebraico” potrebbe avviare nuovi negoziati di pace con pochi semplici gesti. Può anche decidere con chi: con Fatah o con un governo di unità nazionale palestinese. Potrebbe mobilitare una coalizione internazionale per sostenerlo – dai paesi arabi alla Turchia, dalla Russia agli Stati Uniti e Unione Europea. Il nostro è uno dei pochi conflitti al mondo in cui tutti questi stati sarebbero felici di cooperare. Potrebbe porre unilateralmente fine al regime militare in Cisgiordania. In poche parole, Israele ha un set completo di strumenti a sua disposizione che, nel medio-lungo periodo, potrebbero modificare sostanzialmente i rapporti tra ebrei e arabi in questa terra. Ma tutto questo ha un prezzo: porre fine alla costruzione degli insediamenti, rilasciare i prigionieri in detenzione amministrativa, e tutti gli altri nodi irrisolti che la leadership politica, così come la maggior parte dell’opinione pubblica israeliana, respinge in questo momento.
Traduzione di Irene Masala
Fonte: http://972mag.com/israel-still-holds-all-the-cards/112510/