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Primarie Usa: testa a testa tra la Clinton e Trump

di Salvo Ardizzone

La lunga campagna per le presidenziali Usa si sta dimostrando la più imprevedibile della storia: per la prima volta il candidato repubblicano Donald Trump (unico rimasto in lizza) ha superato la frontrunner democratica Hillary Clinton nella media dei sondaggi con un 43,4% a 43,2%; un vantaggio irrisorio, ma che ha visto dileguarsi progressivamente il macroscopico distacco di 11 punti vantato dalla Clinton ad aprile. Dietro di loro continua a rafforzarsi Bernie Sanders.

Da quando i repubblicani hanno deciso di accettare Trump come candidato, puntando sulla sua elezione per limitare i danni, il vantaggio dell’ex first lady si e squagliato: in un Paese in cui è forte la voglia di cambiamento, la Clinton è percepita come la rappresentante della vecchia politica, ed è questo che sta mettendo le ali alla campagna di Trump, visto comunque come una novità.

Tuttavia, in questa inedita campagna elettorale, entrambi i candidati più accreditati alla nomination hanno la peggiore immagine di sé presso l’elettorato mai registrata alle elezioni americane, con quasi sei elettori su dieci che esprimono un’opinione negativa su di essi.

Insomma, due candidati deboli e poco amati dietro cui continua a crescere Bernie Sanders, la vera sorpresa di queste elezioni: il 74enne Senatore del Vermont si sta dimostrando capace di mobilitare folle sempre più vaste di sostenitori e di intercettare il consenso delle nuove generazioni. Dichiaratamente socialista, in un Paese in cui quella parola equivale a una bestemmia, sostiene con forza che la politica debba emanciparsi dal potere di Wall Street per concentrarsi sulle fasce più deboli della popolazione; un messaggio che sta riscuotendo un successo inaspettato ma comprensibile in un Paese piagato da una crisi che ha creato ampie sacche di disagio, sottooccupazione e sfruttamento.

Il programma di Sanders, avversato ferocemente dall’establishment del Paese, prevede una redistribuzione della ricchezza attraverso la tassazione di quell’1% della popolazione che ha beneficiato della cosiddetta “ripresa” Usa, lasciando solo le briciole a tutti gli altri, e di una limitazione di multinazionali e grandi banche che non devono più essere “too big to fail”, troppo grandi per fallire, trascinando con sé tutto il sistema.

Quello che più stupisce, e comincia a scuotere i palazzi del potere democratico, è che in una eventuale sfida elettorale con Trump, Sanders stravincerebbe con 15 punti di vantaggio. La spiegazione è semplice: entrambi rappresentano la rottura con la vecchia politica, ma le proposte del Senatore del Vermont sono assai più credibili e convincenti delle rozze provocazioni del palazzinaro newyorchese.

Per questo Sanders ha già criticato fortemente l’assegnazione di tutti i super delegati (i maggiorenti democratici) alla Clinton, accusando di scarsa democrazia il partito, suscitando così il crescente nervosismo del suo establishment e un’ondata di critiche per un sostegno troppo partigiano e scoperto.

Per Hillary sta suonando l’allarme rosso (come pure per i poteri forti di Wall Street che la sostengono con stratosferiche donazioni di dubbia legalità), per questo ha cercato di minimizzare i fatti con una serie di interviste. Intanto sulla sua strada, il 7 giugno, ci sono le primarie in California con i suoi 546 delegati in palio: una vittoria di Sanders tramuterebbe in un incubo la campagna elettorale dell’ex first lady, e farebbe naufragare le sue ambizioni e le sicurezze dei poteri forti che rappresenta.

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