Plastica, da invenzione geniale a mezzo di autodistruzione
Tra il 1861 e il 1862 Alexander Parkes crea e brevetta il primo materiale plastico semisintetico. Da lì in poi, sarà un susseguirsi di esperimenti e modifiche, passate dalle mani di vari studiosi e scienziati, fino ad arrivare alla creazione di un materiale sintetico ottenuto dalla lavorazione del petrolio. È un’innovazione straordinaria che negli anni si evolve sempre più e permette al mondo delle industrie di crescere rapidamente. Il ‘900 merita, in effetti, l’appellativo de “l’età della plastica”. Nel 1913, nasce la plastica da imballaggio così come la conosciamo oggi: flessibile, trasparente e impermeabile.
La plastica si rivela come un materiale unico e particolarmente versatile, si presta a soddisfare le più svariate esigenze in un mondo che dopo la seconda guerra mondiale vuole rinascere e guardare al futuro. Sono molteplici gli utilizzi possibili nei vari settori dell’industria, da quella tessile a quella meccanica, dal settore alimentare al mondo dell’arte e del design, modificando abitudini e generando una vera rivoluzione, specie negli anni del boom economico. Non esiste oggetto di utilità o divertimento che non contenga plastica: il cinema nasce e cresce al passo con la cellulosa, la musica si diffonde dal Pvc dei primi dischi fonografici, perfino il mondo dei giocattoli soppianta legno e stoffa a favore delle plastiche. Utensili da cucina, recipienti per alimenti, complementi d’arredo e tanti altri oggetti comuni riempiono le nostre case e si rendono indispensabili. Un’evoluzione con un rovescio della medaglia dagli effetti tragici e imprevisti.
Plastica, l’invenzione del XIX° secolo si perde nel “monouso”
Oggi la plastica si è trasformata in uno dei problemi più preoccupanti per l’ambiente, fino ad essere la minaccia numero uno fra i rifiuti che produciamo. In Italia si producono 100 kg di plastica a testa in un solo anno, di cui 35 kg solo di rifiuti da confezionamento. La sua pericolosità, se non smaltita adeguatamente, sta proprio nel fatto che per decomporsi nell’ambiente può aver bisogno anche di mille anni. A incrementare l’uso eccessivo e smodato della plastica è stato in particolar modo l’invenzione del monouso: pratico, portatile, infrangibile e, soprattutto, “usa e getta”. Solo nel corso dei decenni si è cominciato a comprendere quanto fosse dannoso per l’ambiente e oneroso smaltirlo. Bruciare la plastica per liberarsene è un danno anche maggiore, in quanto sprigiona nell’aria diossine (molecole altamente cancerogene) pericolose per l’uomo e per tutti gli esseri viventi.
La plastica non ha confini che col tempo non possa oltrepassare: si infiltra nel suolo e inquina le falde acquifere, scorre nei fiumi, naviga per gli oceani dove non è difficile individuare vere e proprie isole di rifiuti galleggianti. Nei mari diventa spesso una delle principali cause di morte per molti animali acquatici che la ingeriscono o vi rimangono impigliati. Comporta un grave rischio di intossicazione per specie marine che svolgono un’azione di filtraggio naturale per depurare i mari, come vongole e cozze. Non c’è essere vivente che non possa subirne gli effetti tossici.
La plastica contamina di sostanze nocive cibi e bevande
Ancora prima che la plastica approdi negli oceani, può contaminare di sostanze nocive cibi e bevande già sulle nostre tavole. È la stessa composizione chimica delle bevande gassate e di alcuni alimenti a corrodere nel tempo il contenitore stesso. Per questo motivo diventa indispensabile rispettare le date di scadenza riportate sulle confezioni, anche per le bottiglie in plastica che contengono semplice acqua minerale. Ovviamente, se il mare è inquinato e i pesci assorbono da decenni delle sostanze non certo salutari, c’è da sospettare che nel nostro piatto arrivi una percentuale degli stessi inquinanti, soprattutto nel pesce in scatola, nei frutti di mare e nel pesce spada, come dichiarato gli esperti.
Purtroppo, il sospetto si è fatto certezza nel 2018, grazie allo studio dell’Università di Vienna e dall’Agenzia per l’Ambiente, basato su un attento monitoraggio che ha coinvolto otto persone in Austria, Finlandia, Italia, Gran Bretagna, Olanda, Giappone, Polonia e Russia. Comparando e studiando le abitudini alimentari nell’arco di una settimana e analizzando le feci, si è arrivati a dover confermare che le microplastiche hanno raggiunto l’intestino umano in ognuna di queste nazioni. Ciò significa che la plastica è ormai parte integrante della nostra catena alimentare.
Plastica presente ovunque
È stata presente, fino ad oggi, perfino dentro creme di bellezza e nei cosmetici sotto forma di microplastiche: polietilene in saponi, gel, esfolianti e persino nei dentifrici. Anche quando ci vengono propinati come prodotti naturali, al loro interno possiamo trovare fino a tremila particelle di plastica per millimetro di prodotto. La spalmiamo sulla nostra pelle, inconsapevolmente, ne assorbiamo gli effetti attraverso l’epidermide, che è un vero e proprio organo, e la mandiamo in circolo nel nostro corpo, giorno dopo giorno, e contribuiamo a disperderla nell’ambiente.
È un rischio talmente conclamato per la nostra salute e per la natura che l’Italia ha deciso di vietare la presenza di micro particelle in plastica nei cosmetici a partire da quest’anno. E cosa dire dell’abbigliamento in pile? Altro non è che un materiale sintetico ricavato dal poliestere, anch’esso ottenuto dal petrolio o da plastica riciclata, per questo erroneamente ritenuto ecologico, ma che in realtà rilascia un’enorme quantità di micro particelle di plastica durante il lavaggio, riversate poi nell’ambiente attraverso l’acqua di scarico.
Biodegradabile fino a un certo punto
In Italia dal 2007 è stato avviato un programma sperimentale a livello nazionale per la progressiva riduzione dell’uso dei sacchi non biodegradabili, fino ad arrivare al divieto nel 2010, così come in Francia e in Irlanda, dove è stata adottata la scelta di tassare l’utilizzo delle buste non bio.
Dopo anni a lamentarci della capacità dei sacchi biodegradabili di autodistruggersi al solo toccarli, figuriamoci trasportarvi qualcosa all’interno, sono state finalmente modificate e rese più resistenti aumentandone spessore e peso. Il pregio delle buste biodegradabili è che sono fatte di materie prime rinnovabili: farina o amido di mais, grano o altri cereali. Il tempo di degradazione del sacchetto biodegradabile è di un mese. Può essere utilizzato per contenere l’umido e messo direttamente in compostiera insieme ad esso, poiché diventa fertilizzante per il terreno. In caso di incenerimento ha una minore emissione di fumi tossici.
Le bioplastiche utilizzate per contenere cibi o bevande, grazie alla loro composizione, non comportano il rischio di rilascio di tossine con il passare del tempo. Uno dei difetti da non sottovalutare dei sacchetti biodegradabili è che, se dovessero finire dispersi in mare, le basse temperature non permetterebbero la loro naturale dissoluzione. La scelta migliore rimane quella di fare a meno il più possibile anche di questi sacchetti, dotandosi di shopper lavabili e riutilizzabili all’infinito.
di Anna Lisa Maugeri