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Piccoli passi verso il disgelo fra India e Pakistan

di Salvo Ardizzone

Il 26 maggio, Nawaz Sharif, Primo Ministro pakistano, ha presenziato la cerimonia di giuramento del nuovo esecutivo indiano guidato da Narendra Modi; fra Stati confinanti una normale cortesia, nel caso di India e Pakistan un evento storico mai avvenuto, dopo tre conflitti e 67 anni di ostilità e accuse reciproche. Nell’occasione i due capi di governo si sono incontrati esprimendo l’auspicio di superare i contrasti e avviare una fase di collaborazione; volontà ribadita in uno scambio di lettere successivo. 

Fra i due Paesi l’integrazione, anche solo commerciale, è molto bassa, e alcuni impegni recenti si sono rivelati lettera morta, malgrado potessero far comodo a entrambi. Alle elezioni del 2014, il Bjp, il partito di Narendra Modi, ha vinto a mani basse ottenendo da solo la maggioranza dei seggi, mettendo in agenda il rilancio dell’economia che da tre anni è drasticamente rallentata dopo il +10% del 2010; un disgelo fra i due Paesi potrebbe essere un volano potente e permetterebbe all’India di concentrarsi sulle sue vere priorità. Anche per il Pakistan sarebbe un buon affare; la sua economia è penalizzata fortemente dalla scarsità d’investimenti esteri dovuta alla violenza e all’instabilità che caratterizzano vaste parti del Paese, e nonostante i corposi aiuti sauditi e quelli del Fmi, il Sistema Paese sconta un grave deficit infrastrutturale, soprattutto nel settore energetico, che ne limita notevolmente lo sviluppo. 

Insomma, un dialogo serio fra le due Nazioni libererebbe notevoli risorse da investire e moltiplicherebbe le opportunità per entrambi. Sarebbe logico, ma, come molto spesso accade, ciò che è logico, di frequente, è il contrario di ciò che poi si fa, e nel prossimo futuro saranno molte le nubi su un riavvicinamento, perché, soprattutto nel Pakistan, sono molti e potenti i soggetti che hanno interesse a remare contro, per prime le Forze Armate. 

Il Pakistan nacque nel 1947 per dare una patria ai musulmani dell’antica colonia inglese, ma non aveva un’identità nazionale; così ha finito per trovare nell’ostilità con l’India la sua ragione d’essere, e le Forze Armate, guardiane della sicurezza del Paese, hanno assunto un ruolo fondamentale nella vita politica ed economica della società. Una normalizzazione dei rapporti con il nemico storico, toglierebbe ai militari la loro prima funzione, ridimensionando notevolmente il loro attuale vastissimo potere. 

Quando nel maggio del 2013, con le elezioni, i militari hanno passato la mano a un Governo eletto, non hanno ceduto le redini del potere; si sono ritirati dietro le quinte ma hanno tenuto per sé la gestione di tutte le questioni più delicate, a cominciare dai rapporti con l’India e con l’Afghanistan, oltre alla gestione della sicurezza. Per Karachi, e soprattutto i suoi generali, l’Afghanistan è e deve restare una propria esclusiva area d’influenza; per questo l’Isi, il potentissimo servizio d’intelligence, continua a trescare con terroristi, talebani e capi delle aree tribali, facendo un doppio, un triplo gioco con gli Usa e col governo di Kabul, secondo un’agenda nettamente contraria ai veri interessi del Paese, ma non a quelli della casta militare. 

L’attacco al consolato indiano di Herat del 23 maggio, è stato solo l’ultima di una lunga serie di azioni ispirate e pianificate dall’Isi tramite i gruppi terroristici che controlla; in quel caso voleva essere una brutale risposta a un importante accordo fra India e Russia, in base al quale New Delhi avrebbe pagato le armi che Mosca avrebbe fornito all’Afghanistan; sul momento armi leggere, ma in prospettiva anche elicotteri e tank. Per l’Isi un’ingerenza da punire. 

Il pericolo che i militari, o parte di essi con la collaborazione dei Servizi (da sempre abituati a giocare in proprio), possano tentare di far degenerare la situazione in maniera irrecuperabile è forte, e l’imminente ritiro dall’Afghanistan della coalizione internazionale sarà l’occasione, perché renderà disponibili molti terroristi per una nuova area da colpire: l’India appunto, come s’intuisce da molte avvisaglie. 

Narendra Modi ne è consapevole, e ha scelto Ajit Doval, un ex agente dei servizi, come consigliere per la sicurezza nazionale, allo scopo di migliorare le capacità complessive di prevenzione e reazione nei confronti del terrorismo delle forze di sicurezza indiane, che in troppe occasioni hanno dato di sé una prova mediocre. È certo che un nuovo attentato come quello di Mumbai nel 2008, in cui l’ombra dei militari pakistani era evidente, spingerebbe New Delhi a una reazione durissima che affosserebbe ogni dialogo. Esattamente ciò che si augurano i Generali pakistani e l’Isi per mantenere il proprio apparato di potere.  

Resta il fatto che una normalizzazione dei rapporti (se e quando verrà), permetterebbe all’India di concentrare energie e attenzione sul suo vero competitor nell’area, la Cina, oltre che a favorire lo sviluppo del Paese; come pure permetterebbe al Pakistan di ridimensionare una casta militare che, per mantenere il proprio potere e i propri privilegi, non esita a compromettere le sorti della Nazione.    

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